mercoledì 25 febbraio 2009

Berlusconi sono io.

"Il berlusconismo sta portando alla luce certi modi comportamentali che erano sì latenti nell’italiano, ma che un minimo di rispetto delle regole del vivere civile impediva di far venire a galla. Berlusconi è l’esempio vivente di come uno degli uomini più ricchi del mondo possa sempre farla franca davanti alla giustizia. Questa furbizia, questa abilità, agli occhi dell’italiano diventa un grandissimo merito, un pregio, una qualità rara. E perciò un esempio da seguire appena che se ne presenti l’occasione. Berlusconi è l’uomo che dichiara pubblicamente che le tasse non vanno pagate ove siano reputate, dal cittadino stesso, troppo elevate. E così la cifra dell’evasione fiscale, blandamente perseguita, ha raggiunto cime vertiginose. Berlusconi è colui che afferma di essersi fatto da sé, senza l’aiuto di nessuno. Il che non è affatto vero, ma è riuscito a farlo credere. Questo ha peggiorato il carattere individualista dell’italiano. Berlusconi, da autentico parvenu, ostenta la sua ricchezza, di ogni nuova sontuosa villa che acquista dà una sorta di comunicato ufficiale. Il messaggio sottinteso è che tutti possono diventare come lui. E infatti la corruzione nel nostro paese ha superato i limiti di guardia. Berlusconi fa eleggere tra i suoi senatori e deputati persone condannate per collusione con la mafia o per altri reati comuni sostenendo che così facendo li salva dalla «persecuzione dei giudici». Di conseguenza, il senso morale dell’italiano è diventato solo una pallida ombra. Berlusconi è l’uomo capace di telefonare a un alto funzionario Rai per raccomandargli un’attricetta amica di un senatore appartenente allo schieramento avverso disposto però a votare in suo favore se la ragazza avrà una parte. Nella stessa telefonata promette al funzionario che, quando questi se ne andrà dall’azienda mettendosi in proprio, egli è pronto ad aiutarlo. Berlusconi sostiene di avere ricevuto decine di ispezioni dalla guardia di finanza senza che mai venisse trovato nulla d’irregolare. Resta il fatto che un ufficiale a capo di un’ispezione dopo pochi mesi si dimise per passare al servizio di Berlusconi e quindi diventare deputato di Forza Italia. Come lo è diventato il generale comandante della guardia di finanza dopo essere stato costretto alle dimissioni per la sua condotta non certo lineare.
Berlusconi è un maestro nell’arte della «componenda», che in origine era un pactumsceleristra mafia, forze dell’ordine e potere politico perché ognuno traesse il proprio beneficio da una determinata circostanza. Un esempio recente di componenda può considerarsi la conduzione berlusconiana della partita Alitalia. Respinta la richiesta dell’Air France di comprare la compagnia di bandiera in nome dell’italianità, Berlusconi ha fatto acquistare la compagnia da una cordata italiana a prezzi di saldo, con un numero di esuberi assai superiore a quelli previsti nell’offerta Air France e scaricando milioni di debiti sul contribuente italiano. Ma ha infine «composto» anche con Air France consentendole di acquisire il 25% (per ora) delle azioni. Un detto popolare recita che il pesce comincia a puzzare dalla testa. Di conseguenza, oggi l’italiano spande un po’ di puzza attorno a sé. Come stupirsi dunque della gaffe statunitense successa quando, ai capi di governo che si recavano in Giappone, il Dipartimento di Stato distribuì un dépliant dove l’Italia era definita «un paese corrotto»? Di questo incidente la stampa e la tv accennarono solo di sfuggita. E parliamo d’informazione Non so in quale credibile statistica mondiale l’Italia compare agli ultimi posti per ciò che riguarda la qualità dell’informazione. Se vivessimo in un paese governato da una dittatura, questo sarebbe ovvio. Ma noi viviamo in un regime democratico, anche se sempre di più l’attuale governo punta sul sostantivo mettendo in ombra l’aggettivo. E infatti si parla già di una sostanziale modifica della costituzione che sbocchi in una Repubblica presidenziale. Qual è la situazione dell’informazione italiana? In mano all’attuale capo del governo c’è il gruppo che possiede le tre maggiori televisioni private. L’attuale capo del governo è proprietario di un quotidiano, Il Giornale e ne controlla altri, tra i quali Libero e Il Foglio. L’attuale capo del governo possiede numerosi settimanali illustrati. L’attuale capo del governo è proprietario della più grande casa editrice italiana, la Mondadori, la quale a sua volta è la maggiore azionista di altre case editrici, tra le quali la prestigiosa Einaudi. Inoltre, una delle tre reti televisive di Stato, la seconda, è assegnata al Pdl, il partito del capo del governo. In sostanza, il capo del governo ha il controllo diretto sulle tre televisioni di sua proprietà e il controllo indiretto su una rete Rai.
Ma la sua influenza arriva anche sulla prima rete di Stato: ricordiamoci che ha chiesto e ottenuto la testa di un grande giornalista italiano, Enzo Biagi, che proprio su quella rete esprimeva le sue opinioni. A nulla sono servite sentenze della Cassazione e richiami europei perché questo osceno conflitto d’interessi venisse risolto. Oltretutto, il conflitto d’interessi, a quanto pare, non interessa l’italiano. Non lo turba minimamente. Anche lui avrebbe agito così, se ne avesse avuto l’opportunità. Anzi, nel suo piccolo, spesso agisce così. C’è il pensionato che non dichiara il lavoro nero che fa, c’è l’impiegato che timbra il cartellino, esce dall’ufficio, e va a fare un secondo lavoro. Anche questo in nero. Se il capo del governo fa lo stesso di quello che fa lui, ma in grande, che male c’è? Ora si tenga presente che l’italiano è sostanzialmente un uomo incolto. In Italia si leggono pochissimi libri, da noi ci sono ancora circa due milioni di semianalfabeti e milioni di persone a malapena in grado di compitare. Dei giornali, l’italiano legge solo i titoli. E si vanta di essere capace di farsi un’opinione su tutto da quella sommaria lettura. Perché l’italiano è un uomo soprattutto presuntuoso. E saccente. Capace di tranciare giudizi sul restauro della Cappella Sistina senza averla mai vista. E senza avere mai in vita sua letto un libro su Michelangelo. Capace di dire la sua sul ponte dello Stretto di Messina senza essersi mai mosso da Vigevano, senza intendersene né di ingegneria né di economia. Capace di esprimere la sua profonda convinzione sul passante di Mestre senza avere mai messo fuori il naso da Catania e senza capirci niente dei problemi di viabilità. Le frasi che più frequentemente l’italiano usa sono: «Se fossi io il ministro delle Finanze…» oppure: «Se fossi io il capo del governo…» oppure: «Se fossi io il presidente della Repubblica…» oppure: «Se fossi io il papa…». E tutto questo senza contare che in Italia spesso e volentieri i titoli dei giornali dicono l’opposto del contenuto degli articoli. Quindi la televisione resta il vero, unico mezzo d’informazione. Un’informazione quasi sempre manipolata alla quale però l’italiano crede ciecamente.
Ma attenzione: di fronte allo strapotere dei mezzi d’informazione in mano al capo del governo, anche le reti televisive Rai, quelle diciamo così indipendenti e i quotidiani non di sua appartenenza, mostrano troppo spesso una certa cautela nell’informare su fatti che potrebbero spiacere al massimo detentore del potere politico e mediatico. Certi episodi vengono ignorati del tutto, altri presentati con opportuni accorgimenti che ne diminuiscano il probabile impatto negativo presso i telespettatori. Tra i quotidiani, c’è qualche lodevole eccezione come La Stampa e la Repubblica, ma, nella sostanza, esiste un solo giornale di netta opposizione, l’Unità, dal capo del governo visceralmente detestato. Il resto, salvo una o due voci dissonanti, è coro. Qualche parola in più circa l’effetto della televisione sull’italiano. Negli anni nei quali la Rai agì in regime di monopolio televisivo non si può in coscienza negare che essa ebbe una certa influenza sulla crescita culturale degli italiani. I dibattiti politici vedevano in genere un segretario di partito alle prese con una decina di giornalisti appartenenti a testate politicamente tra loro opposte i quali non risparmiavano domande imbarazzanti o provocatorie. Non c’era l’ossequio devoto al potere che oggi si trova espresso in trasmissioni tipo Porta a porta. I documentari che mostravano com’era l’Italia, anche se alcuni discutibili, erano sempre e comunque sceneggiati da scrittori e giornalisti d’alto livello e diretti da registi di rango o specializzati. I grandi romanzi sceneggiati, tratti per lo più da opere classiche, incoraggiavano alla lettura. L’appuntamento settimanale della prosa presentava testi d’impegno che spaziavano da Strindberg a Pirandello, da Ibsen a Sartre. Persino trasmissioni di varietà come Studio uno avevano gusto e raffinatezza oggi inconcepibili. La situazione mutò radicalmente con l’avvento delle tv private e soprattutto con l’unificazione operata da Berlusconi, sotto il mantello protettivo di Craxi, tra diverse emittenti che furono raggruppate in tre reti in diretta concorrenza con le tre reti della Rai. Le televisioni private possono vivere solo se sono supportate dalla pubblicità. Ora è chiaro che chi deve pubblicizzare un prodotto cerca il più gran numero possibile di ascoltatori. E il maggior numero di ascoltatori una tv privata l’ottiene non alzando la qualità culturale delle trasmissioni, che rischierebbe di farle diventare per pochi, ma operando in direzione opposta.
La Rai commise l’imperdonabile errore di adeguarsi ai sistemi delle tv private tagliando dal palinsesto i programmi di minore ascolto, come ad esempio la prosa, vale a dire eliminando le trasmissioni più culturalmente impegnative. Nel giro di una ventina d’anni il risultato innegabile è stato che la piattaforma culturale dell’italiano si è abbassata di tantissimo, se oggi possono imperversare trasmissioni come i reality show e le soap opera. L’italiano d’oggi è assai più ignorante dell’italiano di vent’anni fa. Con tutte le conseguenze immaginabili. Tra parentesi: la richiesta di spot pubblicitari sulle reti Mediaset è esponenzialmente aumentata rispetto alla Rai. L’italiano corre sempre in soccorso del vincitore, diceva Ennio Flaiano. Ma questo non è esatto, l’italiano non corre in soccorso di un vincitore chicchessia, sceglie accuratamente su quale carro trionfale saltare all’ultimo minuto. E la scelta è dettata quasi sempre da una precisa domanda: che cosa me ne viene in tasca? Insomma, nella decisione dell’accodarsi prevale sempre il particulare. Certo, quando Pirandello nel 1924, dopo il delitto Matteotti, prese la tessera del partito fascista, saltò sul carro di chi in quel momento era in grossa difficoltà. E lo stesso fece Giovanni Gentile quando tornò alla ribalta allorché la guerra mise il fascismo in crisi. Ma sono esempi rari e isolati. Diciamo che non fanno testo. Nessun italiano corse in aiuto di Ferruccio Parri, l’unico presidente del Consiglio azionista dell’Italia democratica, un galantuomo di ferrei princìpi morali e politici, antiretorico, per niente incline a chiedere simpatie. I qualunquisti di allora lo ribattezzarono «Fessuccio», mentre i fascisti risorti scrivevano sulle mura di Roma: «Aridatece er capoccione nostro». Nessun italiano è corso in aiuto di Prodi quando ha vinto le elezioni. Anzi, c’è stata una specie di concorde tiro al bersaglio di amici e nemici contro di lui. Ci fu addirittura un partito alleato che si dichiarò «di lotta e di governo». Vale a dire che teneva prudentemente il piede in due staffe. Anzitutto Prodi non era aiutato dall’aspetto fisico. Che per l’italiano conta moltissimo. Era un uomo piuttosto dimesso, che parlava a bassa voce e con una certa difficoltà. Somigliava molto a Parri.
Vuoi mettere col sorriso accattivante di Berlusconi e col suo eloquio torrenziale condito da barzellette e da citazioni della zia monaca? Andrebbe qui ricordato opportunamente che tra i motivi del consenso a Mussolini ce ne sono stati due non indifferenti: il suo modo di protendere la mascella e la sua oratoria tribunizia. All’italiano non importa capire a fondo il senso di ciò che gli viene detto da un balcone, da un palco, gli basta restare incantato dal suono delle parole. Lo diceva anche il grande Petrolini quando interpretava il personaggio di Nerone. E l’italiano crede alle promesse, anche quelle che si dimostrano irrealizzabili al lume del senso comune, che ogni politico venditore di fumo è pronto a elargirgli. Dentro di sé è convinto che quel politico non sarà mai in grado di realizzare tutto ciò che promette, ma è altrettanto convinto che se quel politico riuscirà a portare a compimento solo una parte di quello che ha promesso, lui personalmente ne riceverà grossi benefici. Prodi prometteva poche cose, Berlusconi un avvenire meraviglioso, una sorta di Eden dove si poteva commettere anche qualche peccatuccio senza timore d’incorrere nell’ira divina. Era inevitabile quindi che l’italiano corresse in soccorso di quest’ultimo. Un problema dei tempi recenti è rappresentato dal riaffiorare nell’italiano di atteggiamenti razzisti. Lo scrittore inglese Evelyn Waugh, che nel 1935 seguì la campagna d’Etiopia, un giorno vide dei nostri soldati che fianco a fianco con operai abissini sistemavano le traversine di una linea ferrovia. Ne dedusse che gli italiani non avevano uno spirito coloniale: infatti mai un soldato inglese si sarebbe messo a sudare assieme a un indiano, un afghano, un africano in un comune lavoro. Non aveva tutti i torti, la nostra politica coloniale ha sempre oscillato tra la repressione più feroce e il permissivismo più inconcludente. Del resto l’italiano non cantava: «Quando l’Africa si piglia/ si fa tutta una famiglia»? Dunque l’italiano non dovrebbe essere razzista. Invece lo è. Un’altra dimostrazione di coesistenza dei segni + e -? Nel 1938, al tempo della promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, che costituirono il preludio allo sterminio, non ci fu nessuna reazione da parte dell’italiano che sostanzialmente era d’accordo col fascismo nel ritenere l’ebreo brutto, sporco e cattivo. E questo senza bisogno di leggere il Manifesto dei 10 o riviste come La difesa della razza. Certo, ci fu una minoranza che aiutò gli ebrei in tutti i modi possibili per salvarli dalla persecuzione, ma è innegabile che la stragrande maggioranza non mosse un dito. Anzi, furono in tanti a impadronirsi delle loro proprietà e dei loro commerci. Poi, nel dopoguerra, il razzismo venne sepolto nella dimenticanza. Tra l’altro, i firmatari dell’ignobile Manifesto dei 10, dopo un brevissimo periodo d’eclissi, tornarono alle loro cattedre universitarie. Il razzismo è risorto, virulento, in tempi recenti, aizzato tanto dalla Lega quanto dalle frange estreme dei movimenti di destra. E supportato dal silenzio, al riguardo, di Berlusconi e dei suoi.
Mentre Fini proclama, ed è sincero, che le leggi razziali sono state il male assoluto, alcuni suoi seguaci dicono di non essere d’accordo con le sue dichiarazioni. Nel Nord imperversano personaggi, come l’eurodeputato leghista Borghezio, che incitano all’odio razziale, ma anche a Napoli si buttano le molotov contro i campi nomadi. Oggi l’italiano, in questo finalmente concorde, è convinto che in ogni moschea s’annidi un covo di pericolosi terroristi, che i romeni siano tutti malavitosi, che gli stupratori siano sempre di colore. Resta un pochino deluso quando poi si scopre che ad uccidere, a rubare, a violentare sono stati degli italiani. E si è arrivati all’abiezione, non si può definire diversamente, di voler prendere le impronte digitali ai bambini rom. Oggi come oggi il volto dell’italiano non è gradevole da guardare. Lo stato attuale delle cose è la prevalenza dell’ideale del motorino. Per capire ciò che intendo dire basterà guardare la circolazione stradale in una qualsiasi grande città italiana in un’ora di punta. Mentre, bene o male, anche per la presenza dei vigili urbani, le automobili rispettano le regole, si fermano col semaforo rosso, non fanno inversioni di marcia a U, non prendono i sensi vietati, i motorini dilaganti non rispettano nessuna regola. Salgono sui marciapiedi, passano col rosso, procedono contro mano, svoltano dove non dovrebbero, s’incuneano tra auto e auto, non tengono conto delle strisce pedonali. Il loro percorso insomma è un’infrazione continua. A loro è concesso ogni arbitrio. Anche i vigili urbani fanno finta di niente, chiudono tutti e due gli occhi. Ecco, forse l’ideale dell’italiano di oggi è essere un motorino". (Andrea Camilleri-Limes)

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