mercoledì 28 maggio 2008

Give peace and chance.


Libero mercato, multicultura e solidarietà, questo è il futuro.

Riporto qui di seguito il discorso di Sergio Marchionne, amministratore illuminato della Fiat, fatto ad alcuni studenti dopo aver ricevuto una laurea honoris causa il 27 maggio 2008, su come dovremo vivere in questo millennio e come dovremo relazionarci con l'Africa..
"Quello che intendo dire a voi ragazzi è che il rispetto per gli altri deve rimanere un valore essenziale in tutto quello che farete. È l’unica cosa che ci rende davvero persone. Rispetto per gli altri significa soprattutto rispetto per le diversità. Il progresso dipende in gran parte da quanto saremo in grado di costruire una società pluralista e multiculturale. Tutto questo richiede una grande apertura mentale. Credo che ci siano due modi per affrontare le sfide di un’epoca globale. Il primo è quello di restare concentrati su se stessi. Di pensare che la propria cultura e le proprie convinzioni siano le uniche valide. Di credere che la verità e la ragione stiano sempre da una stessa parte. Di arrogare a sé il diritto di insegnare agli altri. Il secondo atteggiamento, invece, è quello di chi ascolta. Di chi è consapevole che esistono altri valori e altre culture e che ci sono tradizioni e aspettative differenti. Questo, ovviamente, nel rispetto delle regole e dell’ordine sociale, che sono elementi necessari in ogni comunità.Si tratta di due strade molto diverse. La prima è più semplice e più rassicurante. La seconda è senza dubbio più laboriosa, perché richiede di porsi molte domande e di farsi venire tanti dubbi. L’una non porta a nulla se non al conflitto, l’altra apre una prospettiva di crescita collettiva. L’una ti rende straniero, l’altra cittadino del mondo. Cari studenti, le prospettive che abbiamo di fronte sono quanto mai aperte. La forza del libero mercato in un’economia globale è fuori discussione. Nessuno di noi può frenare o alterare il funzionamento dei mercati. E non credo neppure sia auspicabile. Questo campo aperto è la garanzia per tutti di combattere ad armi pari. È l’unica strada per avere accesso a cose che non abbiamo mai avuto prima. Ma l’efficienza non è - e non può essere - l’unico elemento che regola la vita. Ci sono problemi più grandi, ai quali il mercato non è in grado di dare soluzione. E non credo riuscirà mai a farlo.Voglio citarvi le parole di una ragazza di 25 anni. Probabilmente la conoscete. Si chiama Asa. È una musicista che arriva dalla Nigeria e sta avendo un certo successo. Il suo brano d’esordio è già in testa alle hit europee e a marzo ha fatto il suo primo tour in Italia. Quello che mi ha colpito di questa ragazza è la sua energia, la sua profondità. Le sue sono canzoni di denuncia e di speranza insieme, ma soprattutto di impegno. Ho letto una recente intervista in cui parla del suo modo di intendere quello che fa. Dovremmo fare tesoro di quello che dice: «Voglio che la mia Africa tocchi la gente. Voglio ridare speranza al mio popolo e parlare a loro nome. Ci sono molti artisti che parlano ai potenti della terra per cercare di risolvere i problemi che ci affliggono. Io invece voglio parlare ai giovani africani: dobbiamo cominciare a riflettere, a cambiare atteggiamento e prendere in mano le redini del nostro destino». Questo è solo un esempio di una persona che sta cercando di intervenire in un processo di cambiamento e di costruzione del futuro. Ma ci sono altre parti del mondo in cui la situazione è troppo sbilanciata, in cui la povertà e la mancanza di potere economico delle classi sociali richiedono un intervento strutturale. Questi problemi chiamano in causa un aspetto più profondo, quello della responsabilità morale del nostro operato. Nel 1999 Nelson Mandela, allora Presidente della Repubblica del Sud Africa, fu invitato a parlare al World Economic Forum di Davos sugli effetti della globalizzazione. Ho avuto la fortuna di essere tra coloro che lo hanno ascoltato. Nel suo discorso, Mandela toccò alcuni tra i temi più spinosi con i quali tutti noi abbiamo a che fare. Ne ho fatto riferimento in altre occasioni, perché credo che sia questa la vera sfida dell’umanità. Vale la pena citarlo di nuovo: «È mai possibile che la globalizzazione porti benefici solo ai potenti, a chi ha in mano le sorti della finanza, della speculazione, degli investimenti, delle imprese? È possibile che non abbia nulla da offrire agli uomini, alle donne e ai bambini che vengono devastati dalla violenza della povertà? E ora capirete perché quest’uomo ormai vecchio, quasi al tramonto della propria vita pubblica e alle soglie del nuovo secolo, al quale avete concesso il privilegio di prendere commiato da voi, abbia sollevato questi aspetti così concreti di questioni ancora irrisolte». Ho parlato di questo apertamente nel passato con altri, ma ne parlo con voi, in questa occasione, perché siete giovani e avete in mano il futuro. Ne parlo oggi con voi perché chi ha la responsabilità di gestire un’azienda globale ha il dovere di allargare la propria mente e guardare al di là delle mura di un ufficio. Ne parlo con voi perché il vostro impegno va oltre un semplice dovere professionale. C’è una realtà che non possiamo dimenticare. Tutto ciò richiede di prendere coscienza che non potranno mai esserci mercati razionali, sviluppo e benessere se gran parte della nostra società non ha nulla da mettere in gioco al di fuori della propria vita. Talvolta mi chiedo se abbiamo modelli mentali così rigidi che - anche di fronte a chiari segnali di minaccia dal mercato - continuiamo a restare indifferenti nel nostro benessere e non proviamo disagio di fronte a chi non ha nulla. Trovare una soluzione ai problemi sollevati da Mandela significa trovare una soluzione alla gestione del libero mercato. Abbiamo il dovere di contribuire a colmare questo divario. Abbiamo il dovere di riparare le conseguenze che derivano dal funzionamento dei mercati. Ognuno nel suo piccolo. Questo è un impegno che riguarda tutti. Specialmente voi, che avete il domani da costruire. È una grossa responsabilità ed è la sfida più alta che possiamo e dobbiamo affrontare. Ma sono le grandi sfide che danno un significato più profondo a quello che siamo".

Ecco l'Italia razzista che calpesta i diritti umani.

Qui di seguito è il rapporto di Amnesty International, stilato il 27 maggio 2008, sulla situazione in Italia sulla violazione di elementari diritti umani: razzismo, xenofobia, torture, prelevamenti e vendita di armi. Veramente viviamo in un bel Paese... .
"Il 31 ottobre scorso una donna è stata aggredita e uccisa a Roma. Dell’accaduto è stato accusato un cittadino rumeno. Probabilmente, per tutti voi come per noi è più facile ricordare i dettagli della vita e della personalità della persona accusata dell’omicidio, piuttosto che della vittima.
Non è un caso né una vostra personale disattenzione, ma semplicemente il risultato prevedibile del modo in cui le istituzioni hanno affrontato la vicenda e quindi il modo in cui la società italiana l’ha vissuta: un drammatico fatto di cronaca – finito nel modo peggiore – non viene visto per quello che è, cioè l’ennesima violenza contro una donna, ma come il sintomo inequivocabile di una tendenza alla violenza e all’illegalità di gruppi di persone e minoranze, in base alla nazionalità, all’appartenenza etnica, al luogo in cui dimorano.
In quell’occasione, in pochi istanti e in maniera assolutamente irresponsabile, rappresentanti istituzionali e politici di diverso orientamento hanno invocato il pugno di ferro su migliaia di persone che non avevano niente a che fare con la vittima, con l’abuso e l’omicidio, con il responsabile di questi atti.
Tanto che, il 6 novembre 2007, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione per il clima di intolleranza manifestatosi in quei giorni e per lo "stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell’immigrazione messe in atto dalla politica". Il giorno seguente il Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha messo in guardia l’Italia circa il rischio di una "caccia alle streghe" contro i cittadini rumeni e in particolare contro i rom.
La violenza su una donna è diventata infatti la "testa d’ariete" per sfondare la parete del pudore, dell’equilibrio istituzionale, del rispetto dei diritti umani e aprire la strada alla discriminazione e all’erosione dei diritti, attraverso fiumi di parole e specifici atti normativi che rischiano di trasformare l’Italia in un paese "pericoloso", in questo momento particolarmente per rom e rumeni, potenzialmente per chiunque. Per chiunque di noi. L’erosione dei diritti ci mette potenzialmente a rischio nelle più diverse situazioni della nostra vita quotidiana, come le mura domestiche, il luogo di lavoro, le manifestazioni di piazza. Riteniamo che sia questa la vera emergenza in Italia.
Amnesty Internationa è un’organizzazione indipendente, anche e soprattutto rispetto alle parti politiche e ai partiti. I politici italiani – lo diciamo con amarezza – non ci hanno creato problemi in questo senso: sono stati estremamente bipartisan, incredibilmente compatti nel coro di esternazioni violente e discriminatorie.
Dopo quel episodio, l’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, ha dichiarato che "non si possono aprire i boccaporti" e che "prima dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, Roma era la metropoli più sicura del mondo", sottolineando quindi la necessità di provvedimenti d’urgenza. In un’intervista rilasciata il 4 novembre successivo Gianfranco Fini, allora presidente di Alleanza Nazionale, ha dichiarato: "c'è chi non accetta di integrarsi, perché non accetta i valori e i principi della società in cui risiede" e, riferendosi in particolare ai rom ha affermato "mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all'accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una ‘cultura’ di questo tipo non ha senso".
Non sappiamo perché i rappresentanti del Governo allora in carica e il candidato del Partito Democratico alla Presidenza del Consiglio abbiano parlato in questo modo: ciò che ci preme dire è che, assieme ai rappresentanti dei rispettivi schieramenti politici, hanno una grave responsabilità nel deterioramento del dibattito politico e nella legittimazione del linguaggio razzista in Italia.
Con la stessa fretta, sull’onda emotiva di un fatto di cronaca, il Consiglio dei Ministri si è riunito la sera del 31 ottobre e ha approvato un decreto sulle espulsioni dei comunitari. Il provvedimento ha avuto un iter movimentato, essendo decaduto e successivamente "reiterato" con alcune modifiche a dicembre 2007.
Nel testo risultavano particolarmente preoccupanti l’indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione dei cittadini dell’Unione Europea, lasciati scarsamente definiti nella norma ("motivi imperativi di pubblica sicurezza") e quindi fonte di un’eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della decretazione d’urgenza sono infine confluiti nel decreto legislativo 32/2008 che, migliorando il testo originario, ha introdotto la necessità di convalida del giudice ordinario per tutti i provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a parametri legali certi i presupposti dell’espulsione.
Nonostante le promesse elettorali sui diritti di migranti, questa è l’unica nuova legge in materia approvata dal Governo presieduto da Romano Prodi.
Con una linea di continuità di contenuti e di approccio, ha mosso i suoi primi passi il nuovo governo presieduto da Silvio Berlusconi.
Nel corso del primo Consiglio dei Ministri, il 21 maggio 2008 a Napoli, com’è noto è stato approvato un insieme di modifiche e proposte normative, anch’esse nominalmente riferite alla "sicurezza", che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di reato e colpiscono soprattutto gli immigrati, direttamente o indirettamente. Le nuove misure sono state accompagnate da dichiarazioni in linea con la tendenza a stigmatizzare interi gruppi di persone, in particolare i rom e i migranti irregolari. L’attuale leader dell’opposizione Walter Veltroni ha dichiarato che queste misure in larga parte coincidono con quelle pianificate dalla precedente maggioranza di governo.
Il cosiddetto "pacchetto sicurezza" include: o un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più ampi poteri ai sindaci in materia di "ordine e sicurezza pubblica" e rende circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare;
o un disegno di legge che vuole aumentare da 60 giorni a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei centri a scopo di espulsione e che introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare; o tre bozze di decreti legislativi che inaspriscono, tra le altre cose, le procedure di asilo.
Hanno espresso allarme per la riforma normativa molte organizzazioni non governative italiane e internazionali e lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni per i rifugiati, il quale ha sottolineato come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla mancanza di alternative a fare ingresso irregolarmente nei paesi dove cercano protezione, potrebbero venire accusati di aver commesso un reato.
Nel nuovo contesto normativo, quindi, i richiedenti asilo che fuggono da persecuzioni e tortura potrebbero essere accolti in Italia con un’incriminazione per ingresso irregolare – espressamente esclusa dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati – e con 18 mesi di detenzione in un Cpt per il solo fatto di aver messo piede nel nostro paese. Una misura che, secondo gli standard internazionali, dovrebbe residuale ed eccezionale.
Amnesty International è estremamente allarmata sia per il contenuto di queste misure, sia per le modalità affrettate e propagandistiche della loro emanazione e per il clima di discriminazione che le ha precedute e che le accompagna.
In questo contesto, in diverse parti d’Italia, vi sono stati attacchi contro le comunità rom. Attacchi che anche Amnesty International condanna e per i quali chiede che siano aperte indagini per accertare le responsabilità, che siano forniti adeguati risarcimenti per le vittime e le loro famiglie e che sia garantita un’adeguata protezione dei rom da qualsiasi forma di violenza.
Nel corso del 2007 e sino a praticamente ieri si sono verificati attacchi violenti ad accampamenti rom in diverse città e sono state segnalate diverse aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto, cittadini del Bangladesh.
La situazione italiana ha suscitato le preoccupazioni delle Nazioni Unite (Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, marzo 2008) e dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE, organismo che si occupa a livello internazionale di sicurezza e che ha sottolineato come la ricorrente stigmatizzazione di gruppi quali rom e immigrati aumenta le probabilità che si verifichino violenze contro di loro.
L’Italia e tutti i paesi UE dovrebbero attuare una politica comune per l’inserimento sociale dei rom, piuttosto che marginalizzarli ulteriormente ed espellerli. Ricordiamoci che chi risente particolarmente di queste migrazioni forzate sono i bambini, costretti a fuggire e ad abbandonare la scuola, quindi la possibilità di un futuro dignitoso e più sicuro per tutti.
L’ondata di razzismo coinvolge a cerchi concentrici i cittadini stranieri senza documenti regolari e, di fatto in termini più generali, tutti i migranti presenti nel territorio italiano.
Vorremmo che i rappresentanti politici italiani si rendessero contro del fatto che parlare dei diritti umani dei migranti non è impopolare. Amnesty International lo ha verificato con la campagna "Invisibili": durante 16 mesi di attività, decine di migliaia di persone hanno scelto di parlare di questi temi senza pregiudizi, firmando petizioni, organizzando o prendendo parte a spettacoli teatrali e di musica, convegni e mostre. Crediamo che i politici e le istituzioni italiane debbano avere lo stesso coraggio dei bambini di Lampedusa, che ai loro coetanei – i migranti che arrivano sulle loro spiagge – hanno dedicato giochi e disegni sui diritti umani.
Sul questo tema specifico dei diritti di migranti e richiedenti asilo speravamo, fino a pochi giorni fa, di poter apprezzare senza timori alcuni importanti miglioramenti legislativi.
Tra questi, anche i risultati della campagna "Invisibili" sui minori migranti detenuti all’arrivo in Italia: la pubblicazione da parte del Governo dei dati relativi agli arrivi dei minori via mare, la netta diminuzione della detenzione dei minori non accompagnati in frontiera e nuove migliorative istruzioni del Ministero dell’interno sulla determinazione dell’età, che impongono l’applicazione del beneficio del dubbio in tutti i casi di incertezza sulla minore età.
Su uno di questi miglioramenti, invece, non abbiamo fatto in tempo a complimentarci: l’introduzione dell’effetto sospensivo, che consente al richiedente asilo di restare nel territorio italiano durante la decisione di secondo grado sulla sua domanda, come richiesto dagli standard internazionali, potrebbe essere presto cancellato dalle nuove misure legislative per la sicurezza. In assenza dell’effetto sospensivo, una decisione sbagliata in prima istanza può comportare conseguenze gravi e irreparabili per il richiedente asilo espulso nel suo paese di origine. Pensate che un cittadino sudanese del Darfur o eritreo possa presentare una seconda istanza dal proprio paese, dopo una fuga e un rimpatrio forzato, magari dopo essere passato in andata e al ritorno attraverso i campi di detenzione e le torture in Libia?
Questa scelta legislativa peggiorativa in materia di migranti e richiedenti asilo, già di per sé contraria agli standard internazionali sui diritti umani, è preoccupante anche alla luce della collaborazione tra Italia e Libia.
Una collaborazione trasversale ai governi che si sono succeduti dal primo accordo siglato nel 1999 dall’allora Ministro degli esteri Lamberto Dini, con un paese che – allora come oggi – non ha firmato la Convezione di Ginevra sui rifugiati, non ha una procedura di asilo, attua espulsioni a tappeto nei confronti di migranti e richiedenti asilo. I rapporti si sono via via intensificati con la mediazione in prima persona, nei loro ruoli istituzionali di Ministri, degli onorevoli Massimo D’Alema, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu e Giuliano Amato. L’atto finale, per il momento, è l’accordo del 29 dicembre 2007, che prevede il pattugliamento congiunto con 6 navi della Guardia di Finanza cedute alla Libia, con comando interforze a coordinamento libico. Pochi mesi dopo, con l’approvazione del rifinanziamento delle forze armate e di polizia in missioni internazionali, oltre 6,2 milioni di euro di denaro pubblico sono stati destinati a finanziare il pattugliamento congiunto. In quegli stessi mesi, il leader libico Gheddafi confermava pubblicamente di voler attuare deportazioni di massa.
È quindi sempre più urgente che gli accordi con la Libia siano resi pubblici, che venga chiarito quali sono le garanzie richieste dall’Italia per i diritti umani e che cosa accade alle persone fermate in mare nel pattugliamento congiunto.
La segretezza di accordi, dati e informazioni che riguardano la vita di migliaia di persone non può prolungarsi ulteriormente e assume una parvenza ancor più preoccupante alla luce del clima italiano, che sembra attribuire ai migranti responsabilità collettive e una soglia più bassa di tutela dei diritti umani e quindi di dignità umana.
Le minoranze non sono le uniche ad essere colpite quando la cultura dei diritti viene sostituita dalla loro erosione e dall’impunità.
E proprio parlando di impunità, non possiamo non ricordare ancora una volta la mancanza di leggi adeguate e di strumenti di prevenzione in Italia di maltrattamenti e tortura. Questo contesto rende allarmante il problema dei diritti umani, trovando purtroppo conferma nei processi in corso.
Lo sanno bene le centinaia di persone che sono state vittime di abusi a Genova, durante il G8 del 2001. Nonostante gli impegni presi dal Governo Prodi, non sono state garantite né una commissione indipendente di inchiesta né gli strumenti necessari per garantire che quanto accaduto a Genova non si ripetesse più.
Dove sono il reato di tortura e la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, che decine di migliaia di persone, le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa chiedono all’Italia ormai da troppi anni?
Perché nessuno degli imputati nel processo è stato sospeso dal servizio e molti sono stati di fatto promossi, così contribuendo a diffondere un pericoloso clima di impunità tra chi dovrebbe proteggere la sicurezza?
Senza alcuna soddisfazione constatiamo oggi gli effetti pratici di questo stato di cose, previsti e annunciati da AI senza incontrare il dovuto ascolto. Nel processo per Bolzaneto la pubblica accusa ha ricostruito gli avvenimenti che, in quei giorni da non dimenticare, hanno colpito nella caserma oltre 250 persone.
Secondo i pubblici ministeri, il trattamento è stato "di oggettiva vessazione nei confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo della loro permanenza presso il sito" e ha violato il divieto di tortura e maltrattamenti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Le memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che è difficile fotografare i fatti accaduti con l’attuale codice penale, che non include il reato specifico di tortura.
Fa effetto ascoltare che chi materialmente indaga sui reati e ne deve chiedere l’applicazione, constata gli effetti pratici della mancanza di un reato di tortura. Altrettanto effetto fa constatare che denunce di maltrattamenti e abusi simili sono emersi, dopo Genova, rispetto alle situazioni più disparate di protesta e di espressione del dissenso. Ne sono un esempio gli atti di violenza denunciati in relazione all’intervento da parte delle forze di polizia in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, contro un centinaio di persone che manifestavano contro la costruzione di un collegamento ferroviario ad alta velocità.
Per quanto sembrino cose diverse, la mentalità che consente tutto questo è la stessa che porta un governo a fidarsi di una semplice lettera di assicurazioni diplomatiche, con la quale un paese come la Tunisia promette di non torturare una persona che l’Italia vuole rinviare.
E su questo argomento, l’Italia ha subito una sonora lezione da parte della Corte europea dei diritti umani, che dovrebbe rappresentare un monito per tutti.
Si tratta della sentenza che, a febbraio, ha annullato il provvedimento di espulsione nei confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi, emesso dal Ministro dell’Interno Amato sulla base del "decreto Pisanu". L’Italia sosteneva che il rischio di tortura all’arrivo non bastasse in sé a bloccare l’espulsione. La Corte europea ha invece respinto il tentativo italiano di relativizzare il divieto di tortura nel diritto internazionale e ha riaffermato che si tratta di un principio assoluto.
L’estrema debolezza dell’impegno italiano contro la tortura e a sostegno del sistema internazionale dei diritti umani è il contesto in cui si sviluppa il caso di rendition che ha coinvolto Abu Omar.
Le indagini della magistratura italiana e l’avvio del processo sul coinvolgimento di funzionari di intelligence italiani e statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno contribuendo a svelare la verità per mezzo della giustizia.
Fino ad oggi i ministri della Giustizia che si sono succeduti, Roberto Castelli e Clemente Mastella, non hanno inoltrato al Governo Usa le richieste di estradizione dei 26 agenti della Cia, come sollecitato anche dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa. Non solo: l’Italia, contrariamente alla maggioranza dei paesi europei, di fatto non ha collaborato con le inchieste del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa sulle rendition e le violazioni dei diritti umani nella guerra contro il terrorismo.
Auspichiamo un’inversione di rotta, che potrebbe cominciare da un tema sin qui non citato. L’Italia, notoriamente tra i principali produttori ed esportatori di armi al mondo, dovrebbe integrare effettivamente il rispetto dei diritti umani nelle scelte politiche e amministrative che riguardano queste attività.
Le singole autorizzazioni devono essere affrontate dal Governo anche nell’ambito della propria politica estera. Gli sforzi dell’Italia e della comunità internazionale per il rafforzamento della tutela dei diritti umani in Afghanistan, per esempio, rischiano di essere danneggiati da un’eccessiva quantità di armi piccole e leggere offerta dai paesi Nato e tra essi dall’Italia. L’Italia ha esportato verso l’Afghanistan armi "comuni da sparo" per oltre 3 milioni di euro per il quinquennio 2003/2007, con un netto incremento nell’ultimo anno.
In particolare, l’Italia ha sempre dichiarato di volersi impegnare per la difesa dei diritti dei minori, con una specifica attenzione ai bambini soldato. Tra il 2002 e il 2007, i governi che si sono alternati hanno autorizzato l’esportazione di armi di diversa tipologia e calibro – per un valore di diversi milioni di euro – a privati e forze armate di stati quali Filippine, Afghanistan, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Uganda, Burundi e Ciad.
Per una "sfortunata" coincidenza, questi paesi sono tutti nell’elenco di quelli in cui i bambini sono utilizzati come soldati, in base ai Rapporti del Segretario Generale delle Nazioni Unite e della Coalizione "Stop all’uso dei bambini soldato".
Non stiamo facendo una richiesta utopistica e irrealizzabile, ma solo la richiesta di una scelta netta: quella di non autorizzare più esportazioni di armi né da guerra né cosiddette "comuni da sparo" verso paesi in cui quelle armi alimentano conflitti di cui bambine e bambini sono vittime certe e numerose, perché feriti o uccisi o perché mandati a combattere con pistole e fucili made in Italy.
Più in generale, per concludere, chiediamo all’Italia di fare una scelta ben precisa, che non ammette compromessi: il governo e il parlamento devono decidere se violare i diritti umani oppure tutelarli, e agire di conseguenza".

giovedì 15 maggio 2008

No all'Italia dei razzisti.


Io dico no all'Italia dei razzisti. Io dico no all'Italia ipocrita. Io dico no all'Italia cialtrona. Io dico no all'Italia superficiale. Io dico no all'Italia leghista. Io dico no all'Italia fascista. Io dico no al falso popolo della libertà. Io dico no all'Italia della mafia, della camorra e della n'drangheta. Io dico no all'Italia del cemento. Io dico no alla falsa opposizione. Io dico no all'Italia della caccia al diverso. Io dico no al falso dialogo.
Io chiedo scusa al mondo per l'ignoranza di noi italiani.

mercoledì 14 maggio 2008

Da oggi io sono rom.

Gli italiani, gli occidentali, che strana gente. Si mobilitano per il Tibet, gridano alla dittatura per la Birmania, lanciano campagne per il Darfur. Terre lontane e sconosciute dove far del bene non fa male a nessuno e mette in pace la coscienza.
Si lanciano campagne e campagne per adottare bambini a distanza, si chiedono continuamente soldi per aiutare questo o quel villaggio, si inviano aiuti in Paesi di cui nemmeno si conosce l'esistenza.
A casa propria invece cosa facciamo: cacciamo popoli e bambini, bruciamo le loro misere baracche, facciamo leggi che proteggono le nostre proprietà intoccabili.
Ho visto bambini terrorizzati piangere mentre folle inferocite inveivano contro i loro padri. Ho visto baracche incendiate dai vandali civilizzati dalla tv, ho visto apette con quattro cartoni allinearsi per andare chissà dove, forse alla ricerca di un altro sottopasso di cavalcavia per avere un tetto per ripararsi.
Ma non ho ancora sentito levarsi nessuna voce in difesa dei rom, non ho visto nessuna mobilitazione per difendere i loro bambini, non ho visto nessuno mobilitarsi per gridare allo scempio.
Da oggi non sono più italiano, nè tibetano o birmano, io voglio essere un rom.

Fiançailles.


mercoledì 7 maggio 2008

Leningrad. Russian wedding.


Nasce la Groelandia, uno Stato di 57.000 eschimesi.

Qui di seguito un articolo di Andrea Tarquini, della "Repubblica", sulla nascita del nuovo Stato della Groelandia.
"Sta per nascere una nuova nazione, e di fatto sarà il primo Stato eschimese. E una lingua eschimese diventerà ufficiale, lassù tra i ghiacci eterni del grande nord. La Groenlandia, la più grande isola del mondo, ha cominciato ieri a scogliere gli ultimi legami con la madrepatria Danimarca, l'ex potenza coloniale. Lentamente, ma nascerà uno Stato vasto come sei Germanie e abitato da appena 57mila persone. Sarà nazione sovrana grazie alle ingenti risorse di petrolio, metalli preziosi e altre materie prime, ma dovrà appoggiarsi a Copenaghen e al resto della Vecchia Europa per formare la sua classe dirigente. E per la prima volta dal dopo-colonialismo uno Stato europeo perderà il 98 per cento del suo territorio. La svolta è cominciata ieri, con la firma di un trattato tra il premier conservatore danese, Anders Fogh Rasmussen, e il governatore-premier di Groenlandia, il socialdemocratico Hans Enoksen. Entro fine anno un referendum in Groenlandia e un voto del Parlamento reale danese daranno il responso già ora scontato: si andrà step by step verso l'indipendenza e il diritto alla secessione. I sogni volano alto, anche quando è difficile. Anche quando la capitale del futuro Stato eschimese indipendente, Nuuk, ha sì e no 15mila abitanti, come un grosso villaggio europeo, e appena due ristoranti di lusso, entrambi dipendenti ogni giorno dalle forniture di cibo fresco che arrivano da Copenaghen. Da qualche anno anche il grande mondo globale si è accorto che la Groenlandia esiste. Per caso, grazie a un film, Il senso di Smilla per la neve, storia di una giovane in cerca di identità. Sulle orme di Smilla, i groenlandesi sono decisi a non mollare, vogliono procedere sulla via indicata dal Trattato: addio a Copenaghen, addio dolce ma senza ritorno.
Ma siamo appena agli inizi. La Danimarca versa ancora a Nuuk 3 miliardi di corone l'anno, cioè oltre 400 milioni di euro, che fanno 7000 euro per ogni abitante dell'immensa isola dei ghiacci eterni. E così la tiene in vita. Gli Airbus cargo della parte danese della Sas, la compagnia aerea scandinava, atterrano ogni giorno in Groenlandia: portano tutto, dalla frutta, alla birra, alle medicine. Gli F16 della Royal Danish Air Force pattugliano ancora i cieli del futuro Stato eschimese, spesso in incontri ravvicinati con i bombardieri atomici Tupolev che Putin ha rimesso in volo di pattuglia armata permanente. Ma da ieri, il divorzio lento è avviato, irreversibile. Ai danesi resterà solo, temporaneamente, la politica estera, come fece Dublino quando si sganciò da Londra. Petrolio in abbondanza, e altre materie prime, saranno la base della sovranità, promette Enoksen. "Dobbiamo difendere il diritto di proprietà dei groenlandesi sulle loro risorse", dice il leader socialdemocratico. Ma non è solo questione di soldi, anche di cultura nazionale riscoperta. Spesso troppo diversa da quella europea rappresentata dai danesi. "La caccia, alle foche, ai trichechi, alle balene per noi è parte del quotidiano, mangiare carne di balena o prosciutto di foca è tradizione", spiega all'inviato della Sueddeutsche Zeitung Job Hellmann, cacciatore di professione, nome danese ma lingua eschimese. "Abbiamo inventato noi l'igloo, il kayak, l'eskimo, e ci sentiamo trattati dall'Unione europea e da Copenaghen come barbari. E cosa sono allora gli europei che vengono nelle nostre acque con le loro flotte di pescherecci atlantici e ci tolgono il pane?", chiede polemicamente Kupik Kleist, parlamentare, presidente del Partito per l'indipendenza, affine alla sinistra radicale. "Tutto quello che arriva in aereo da Copenaghen qui costa molto più che in Danimarca", mugugna Jeppe-Eiving Nielsen, capocuoco del miglior ristorante di Nuuk, "mentre il pesce di qui è così fresco che i filetti ancora tremano quando li tagli". La via verso l'indipendenza sarà dura: troppi poveri, troppo pochi i giovani qualificati per una futura classe dirigente. Ma già fanno capolino nuovi gruppi emergenti. Come Bjarke de Renouard, manager: è danese, ha sposato una groenlandese, della lingua locale non capisce una parola "ma - dice - i miei figli la parlano correntemente, sarà la loro identità domani".

lunedì 5 maggio 2008

Chiesa pigliatutto: le carte truccate dell'otto per mille.

Riporto qui di seguito un articolo di Cinzia Sciuto, apparso sul sito di Micromega, sulla "truffa" dell'otto per mille preso ai cittadini italiani dalla chiesa cattolica.
"L’otto per mille è un subdolo meccanismo inventato per occultare un vero e proprio finanziamento pubblico alla chiesa cattolica. Che – con quasi un miliardo di euro all’anno di introiti – ringrazia. Dalle modalità di ripartizione dei fondi agli impieghi che chiesa e Stato ne fanno, tra le pieghe di questo ‘pasticcio all’italiana’ si celano mille inganni. Per il cittadino, ovviamente. Per quanto riguarda poi le spese del mantenimento della Chiesa, queste non possono essere messe a carico dello Stato, ma bensì a carico di quella parte del popolo che professa questa o quella fede, vale a dire soltanto a carico della comunità religiosa.
Nel corso dell’anno ci sono degli avvenimenti che scandiscono il tempo e accompagnano il ciclico susseguirsi delle stagioni. A settembre inizia la campagna per la vaccinazione contro l’influenza, a dicembre siamo informati sulle nuove tendenze per i regali di Natale, a febbraio è tempo di diventare romantici per San Valentino, a maggio si tirano fuori dal cassetto i soliti, immutabili consigli per una tintarella dorata ma sicura. E puntuali come le diete estive e le nuove tendenze dei bikini arrivano anche, tra aprile e giugno, le campagne per la destinazione dell’otto per mille dell’irpef. Quella della Chiesa cattolica soprattutto.
È abbastanza diffusa l’idea che l’otto per mille sia un modo che i contribuenti hanno per destinare una parte delle loro tasse a interventi di carattere sociale e umanitario, gestititi da vari enti religiosi o dallo Stato. Ma basta soffermarsi un attimo a rifletterci su, per accorgersi che si tratta di una sistema quantomeno bizzarro. In fondo l’assistenza sociale, gli aiuti allo sviluppo dei paesi del Terzo mondo, la tutela dei beni culturali sono compiti ordinari che lo Stato affronta (o almeno dovrebbe affrontare) con la gestione delle sue finanze e utilizzando i fondi che gli derivano dalle varie entrate. E se un cittadino vuole impegnarsi di più finanziando questo o quel progetto, nessuno gli vieta di farlo con una libera offerta ad una qualsiasi associazione o ente religioso o laico.
Dunque perché esiste un istituto che obbliga lo Stato (perché l’Irpef è dello Stato) a sottrarre a se stesso una parte delle proprie entrate per finanziare enti che i singoli cittadini potrebbero finanziare autonomamente? La risposta a questa domanda richiede uno sforzo piccolissimo: basta leggere la legge istitutiva dell’otto per mille e magari contestualizzarla storicamente. L’otto per mille è stato creato dalla legge n. 222 del 20 maggio 1985 e su quale fosse la sua finalità non vi può essere dubbio. La legge ha infatti per titolo: «Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi». Questa legge si è resa necessaria in seguito alla modifica del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano, firmata l’anno precedente e ratificata dal parlamento pochi mesi prima dell’approvazione della legge 222/85. Il nuovo Concordato del 1984 ha abolito la cosiddetta «congrua», dei veri e propri «assegni» che lo Stato versava alla Chiesa cattolica per il sostentamento del clero ad integrazione «dei redditi dei benefici ecclesiastici» (così recitava l’articolo 30 del Concordato del 1929). L’accordo di modifica del Concordato rimandava alle decisioni di una commissione paritetica «la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano» nei confronti della Chiesa. L’otto per mille costituisce esattamente la «trovata» dei nostri politici per supplire al sostegno diretto. E così l’articolo 47, comma 2, della legge 222/85 recita: «A decorrere dall’anno finanziario 1990 una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche […] è destinata, in parte, a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica».
Una norma inserita in una legge che, come abbiamo visto, aveva proprio l’obiettivo di dare seguito alle modifiche concordatarie. Nulla a che fare, quindi, con slanci di solidarietà e filantropia. Tanto che gli unici due destinatari originari dell’otto per mille erano lo Stato e la Chiesa cattolica. E basta poco per accorgersi che inserire lo Stato tra i beneficiari era un mero escamotage per rendere accettabile anche alle sensibilità un po’ più laiche un finanziamento diretto alla Chiesa cattolica.
L’
Irpef – lo ripetiamo – è tutta dello Stato, che con questa norma non fa che sottrarre a se stesso una quota delle proprie entrate fiscali per darla alla Chiesa. Sarebbe come dire che una quota dell’Ici è destinata ai comuni per fini specifici: un evidente non senso per nascondere una realtà che iniziava ad essere imbarazzante.Oggi, però, come si sa, i destinatari dell’otto per mille non sono solo lo Stato e la Chiesa cattolica, ma anche altre istituzioni religiose. Come mai? C’è lo zampino dei radicali (siano benedetti). Durante la discussione alla Camera del disegno di legge che istituiva l’otto per mille, alcuni parlamentari radicali, tra cui l’allora laico e anticlericale Francesco Rutelli (lo stesso che oggi dice: «Se non fossi ministro andrei al Family day»… le vie del signore sono infinite), presentarono un ordine del giorno (n. 9/2337/3 del 17 aprile 1985) che impegnava il governo a mettere in atto tutte le iniziative volte a porre rimedio alla «grave situazione di disparità con le altre confessioni religiose» che la nuova legge avrebbe creato. L’ordine del giorno venne approvato e da allora anche le altre confessioni religiose con cui lo Stato italiano ha stipulato intese in base all’articolo 8 della Costituzione italiana possono concorrere alla ripartizione dell’otto per mille. L’apertura non deve aver fatto molto piacere alla Chiesa cattolica ma, una volta abolito l’articolo dei Patti lateranensi del 1929 che definiva la «religione cattolica, apostolica e romana» come «la sola religione dello Stato», un finanziamento esclusivo alla Chiesa cattolica sarebbe diventato incostituzionale. È stato questo, dunque, il percorso che ha portato a quello strano oggetto con cui abbiamo a che fare ogni anno tra maggio e giugno.
Ma ppoi scattò l'inganno. Quello dell’otto per mille è un meccanismo subdolo inventato proprio per ingannare chi paga regolarmente le tasse. Il terzo comma del già citato articolo 47 della legge 222/85 recita: «Le destinazioni di cui al comma precedente vengono stabilite sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi. In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Tre righe in grado di stravolgere, se non addirittura capovolgere, le volontà reali dei contribuenti. Ogni anno la stragrande maggioranza delle scelte espresse va alla Chiesa cattolica: per i fondi ripartiti nel 2007 – relativi ai redditi 2003, dichiarati nel 2004 – addirittura l’89,81 per cento. Ma a fare una scelta esplicita per la destinazione dell’otto per mille è stato solo il 40 per cento dei contribuenti. Dunque, a rigore, è il 90 per cento di quel 40 per cento che vuole destinare l’otto per mille alla Chiesa cattolica, cioè su 100 contribuenti solo 36 e non 90. E invece alla Chiesa è andato il 90 per cento circa dell’intero ammontare dell’otto per mille dell’irpef. Proviamo a fare un gioco mentale. Immaginiamo che alla prossima dichiarazione dei redditi un solo contribuente esprima la sua preferenza e la dia alla Chiesa cattolica: in questo caso, poiché il 100 per cento delle scelte espresse ha indicato la Chiesa cattolica come destinatario, tutto l’otto per mille di tutti i contribuenti andrà alla Chiesa cattolica. Il paradosso mostra chiaramente la natura ingannevole del meccanismo. E non poteva che essere così. Sarebbe mai stato possibile abolire la congrua sostituendola con un meccanismo che non garantiva alla Chiesa entrate almeno simili, se non addirittura maggiori? Ricordiamo che la modifica del Concordato si può fare solo con l’accordo delle parti (l’unico atto unilaterale che lo Stato italiano potrebbe fare è abolire l’articolo 7 della Costituzione che riconosce i Patti lateranensi come testo di riferimento nei rapporti Stato-Chiesa… ve l’immaginate?). Visto l’atto di nascita dell’otto per mille, dunque, non è affatto malizioso né dietrologico affermare che si tratta di un meccanismo di finanziamento pubblico della Chiesa cattolica, escogitato in modo che fosse il più possibile favorevole alla Santa Sede. Se così non fosse, perché lo Stato non fa neanche un minuto di pubblicità per spiegare bene il meccanismo dell’otto per mille e invitare i cittadini a destinarlo a esso stesso?
È chiaro che chi ha scritto la legge sapeva benissimo che la gran parte delle persone non avrebbe espresso alcuna preferenza e si è inventato un meccanismo che trasformasse questo silenzio in maggiori guadagni per il principale destinatario, cioè la Chiesa cattolica. Il meccanismo del silenzio assenso si presta perfettamente a questi inganni. Per fare un esempio in un contesto completamente diverso, un simile tranello si sta realizzando sulla questione della destinazione del Tfr (trattamento di fine rapporto, meglio conosciuta come liquidazione). Come si sa, entro il 30 giugno tutti i dipendenti privati devono decidere se destinare il proprio Tfr ad un fondo pensione (scelta dalla quale non si potrà più tornare indietro) o se lasciare il proprio Tfr in azienda (scelta sempre modificabile). Bene, anche in questo caso il silenzio non è collegato alla scelta più naturale e, soprattutto, reversibile ma a quella che favorisce il cosiddetto secondo pilastro della previdenza, la nascita del quale era lo scopo della legge. Pertanto, se un lavoratore non esprime la sua preferenza sulla destinazione del proprio Tfr, questo andrà direttamente (e irreversibilmente!) ad un fondo pensionistico complementare. Insomma, il silenzio viene sempre collegato non alla scelta più logica e ovvia ma a quella che più favorisce l’obiettivo che il politico di turno si è posto, anche a costo di ingannare i cittadini.
Facciamo un esempio concreto di come la Chiesa cattolica tragga un vantaggio economico enorme da questo meccanismo. Facendo due conti sulla base dei dati che ci sono stati forniti dalla Ragioneria generale dello Stato, stando alle sole scelte espresse, la Chiesa avrebbe dovuto percepire «solo» 362 milioni di euro circa. L’intero ammontare dell’otto per mille distribuito nel 2007 è infatti di circa 987 milioni di euro e, come abbiamo visto, solo il 36 per cento circa del totale dei contribuenti ha esplicitamente espresso la volontà che l’otto per mille fosse destinato alla Chiesa cattolica. Questa, invece, ha percepito quasi 887 milioni di euro, più del doppio di quello che le sarebbe spettato rispettando fedelmente la volontà dei contribuenti, perché a quella somma si devono aggiungere circa 524 milioni di euro che costituiscono i fondi derivanti dalle scelte non espresse che vengono ripartiti secondo le percentuali delle scelte espresse.
La Chiesa cattolica è l’unica a percepire un anticipo sull’anno in corso mentre a tutti gli altri enti i fondi arrivano dopo tre anni dalle dichiarazioni dei redditi cui si riferiscono. Questo significa che se una nuova confessione religiosa stipulasse una intesa con lo Stato nel 2007, inizierebbe a percepire i fondi nel 2011 (con riferimento alle dichiarazioni dei redditi 2008). Altra cosa, per esempio, è che le Assemblee di Dio in Italia e la Chiesa valdese non partecipano, perché le loro intese non lo prevedono, alla distribuzione della quota dell’otto per mille derivante dalle scelte non espresse, dunque queste due confessioni percepiscono esclusivamente quanto è stato espressamente destinato loro e la loro quota di scelte non espresse va allo Stato. Qualche anno fa la Chiesa valdese ha iniziato a constatare che lo Stato con la sua parte di 8 per mille spesso tornava a finanziare la Chiesa cattolica (per esempio con interventi sull’edilizia di culto) o destinava i fondi ad usi lontani da quelli previsti dalla legge e nel 2001 decise di chiedere una modifica dell’intesa che le consentisse di gestire direttamente anche la parte di fondi derivante dalle scelte non espresse. Se dovesse essere approvata la modifica all’intesa, la Chiesa valdese, grazie al meccanismo che abbiamo appena visto, inizierebbe a percepire i fondi a partire dal 2011.
Ma cosa ci fa la Chiesa cattolica con tutta questa massa di denaro? La Cei non fornisce un rendiconto dettagliato e analitico dell’utilizzo dei fondi per l’otto per mille, ma solo dei dati distinti per macroaree. Per il 2007, la Chiesa cattolica dispone di una somma superiore a 990 milioni di euro (per l’esattezza quasi 887 milioni a titolo di anticipo sul 2007 e circa 104 milioni come conguaglio per il 2004) e ha deciso di investirli così: 432 milioni, cioè il 44 per cento dei fondi disponibili, per «esigenze di culto e pastorali»; più di 353 milioni, il 36 per cento, per il «sostentamento del clero»; e poco più di 200 milioni, il 20 per cento, per «interventi caritativi» (di cui 90 milioni gestiti direttamente dalle diocesi, 85 milioni per interventi nel Terzo mondo e altri 30 milioni per «iniziative di rilievo nazionale»). La prima voce, «esigenze di culto e pastorali», che è anche quella più sostanziosa, costituisce un calderone in cui c’è dentro di tutto: dalla costruzione di nuove chiese, al mantenimento dei tribunali ecclesiastici regionali, dalla formazione dei catechisti al sostegno alle facoltà teologiche e agli istituti di scienze religiose, dagli oratori ai contributi alle associazioni cattoliche. Poi, visto che una buona fetta di questi fondi è gestita dalle singole diocesi, ognuna può metterci dentro le cose più disparate: dall’organizzazione del sinodo diocesano al sostegno ai consultori familiari e ai centri di accoglienza. Non è possibile sapere nel dettaglio come vengono divisi i soldi all’interno di questo calderone, però la Cei dichiara che «nel 2006 a livello nazionale in media il 30 per cento [dei fondi assegnati alla prima voce di spesa: esigenze di culto e pastorali] è destinato agli interventi per l’esercizio del culto, il 50 per cento per l’esercizio della cura delle anime [sostegno ad attività pastorali, facoltà teologiche e istituti di scienze religiose, parrocchie in condizioni di necessità straordinarie, iniziative a favore del clero anziano e malato, mezzi di comunicazione sociale eccetera], il 10 per cento per la formazione del clero e dei religiosi, l’1 per cento per scopi missionari, il 4 per cento per la catechesi e l’educazione cristiana e il 5 per cento per le altre destinazioni e le iniziative pluriennali diocesane». Insomma, di tutto un po’. C’è poi l’altra voce, quella relativa al sostentamento del clero. Nel 2005, ultimo dato disponibile, ben il 57 per cento dei redditi di sacerdoti e vescovi è coperto dai fondi dell’otto per mille. Infine c’è un dato che non viene riportato per nulla nel rendiconto Cei ed è quello relativo alle spese per la promozione. Paolo Mascarino, responsabile del Servizio per la promozione al sostegno economico alla Chiesa (che fa direttamente capo alla Cei) in una recente intervista alla Sir, un’agenzia di stampa legata alla Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che le spese per la promozione ammontano a circa 9 milioni di euro l’anno, cioè intorno all’1 per cento del totale dei fondi raccolti, e sono investiti principalmente nelle campagne televisive su tutte le reti nazionali (Rai, Mediaset e La7). Mascarino, direttamente interpellato da MicroMega, ha confermato anche che, per quel che riguarda sia la produzione che la messa in onda degli spot sono coinvolte «società esterne che riservano alla Cei, in virtù della sua natura e finalità, tariffe di assoluto favore», ed è la ragione per cui non ci ha fornito i dati precisi del costo dei singoli spot. Stretto riserbo sui costi anche da parte di Sipra, Publitalia e Cairo Communication, le tre società concessionarie della pubblicità rispettivamente di Rai, Mediaset e La7, alle quali ci siamo rivolti nel tentativo di ottenere cifre precise. È certo comunque che grazie a questo «trattamento di favore», la Chiesa cattolica riesce a mantenere i costi per la promozione entro cifre relativamente contenute: 9 milioni di euro sono un’enormità come cifra assoluta, ma sono in percentuale circa cinque volte più di quello che spende, per esempio, la Chiesa valdese tra gestione e promozione dell’otto per mille. Il moderatore della Tavola valdese, Maria Bonafede, ci conferma che per loro gli spot televisivi sono assolutamente inavvicinabili, perché non sono mai riusciti ad ottenere alcuno sconto sui prezzi. Gli spot della Cei sulle sette reti nazionali – stando sempre a quanto dichiarato da Mascarino – sono invece circa 100 alla settimana equamente distribuiti su tutte le reti, con circa 2 passaggi giornalieri su ciascun canale, sia di giorno che di sera, e sono trasmessi per circa 8 settimane. I prezzi dei listini ufficiali non sono per niente attendibili, perché, di norma vengono applicati degli sconti che possono anche superare il 50 per cento. Ma, visto che nessuno ci ha voluto fornire i dati precisi né gli sconti applicati alla Cei, ci toccherà fare un po’ di conti con i dati che abbiamo.
Dulcis in fundo, l’inganno nell’inganno. I cittadini che intendono lasciare allo Stato tutte le tasse che pagano, otto per mille compreso, sono ingannati due volte. La prima con il meccanismo di distribuzione che abbiamo appena visto. Non ci vuole infatti un sondaggio per capire che la stragrande maggioranza di chi non esprime una preferenza (cioè più della metà dei contribuenti) è arciconvinta che il suo silenzio valga come una preferenza per lo Stato. A nessuno dotato di un minimo di capacità logica – bene ormai introvabile nel nostro paese – verrebbe mai in mente un meccanismo diabolico come quello descritto. Ma ad essere ingannati sono anche coloro che – capito il primo tranello – fanno una scelta esplicita in favore dello Stato. Secondo la legge, infatti, questo ha l’obbligo di utilizzare i fondi che gli derivano dalla ripartizione dell’otto per mille (che per il 2007 ammontano a quasi 86 milioni di euro) esclusivamente «per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali». Sorvoliamo qui sull’arbitrarietà con cui sono stati scelti questi ambiti (perché la conservazione dei beni culturali e non – parola impronunciabile in Italia – la ricerca scientifica? Misteri della politica). Il problema è che negli anni lo Stato ha in realtà utilizzato questi fondi sostanzialmente per integrare le sue, già scarse, finanze. Domanda: e se se lo tenesse tutto l’otto per mille piuttosto che finanziare col denaro di tutti alcune confessioni religiose? Ma questi, si sa, sono quesiti da laicisti anticlericali. Torniamo al punto. Lo Stato inventa un meccanismo per favorire la Chiesa cattolica, meccanismo grazie al quale alcune briciole rimangono allo Stato stesso. Ci si aspetterebbe che almeno queste briciole venissero utilizzate coerentemente a quanto dichiarato nella legge. I fondi dell’otto per mille sono sempre stati utilizzati (ad eccezione del 2002 e del 2003) anche per scopi che esulano dalla normativa (la legge 222/85, che individua gli ambiti in cui questi fondi devono essere utilizzati, e il decreto del presidente della Repubblica n. 76 del 1998, che definisce più analiticamente i criteri per l’assegnazione). Gli usi più «impropri» sono quelli relativi al finanziamento di missioni militari. Non è storia solo recente. Nel 1999 cento miliardi di lire dell’otto per mille vennero dirottati per l’invio in Albania e in Macedonia di contingenti italiani nell’ambito della missione Nato «per compiti umanitari e di protezione militare, nonché rifinanziamento del programma di aiuti italiani all’Albania e di assistenza ai profughi» (decreto legge 21-4-1999, n. 110 convertito in legge il 18-6-1999, n. 186). Nei due anni successivi la somma destinata a missioni internazionali è addirittura aumentata fino ai 150 miliardi circa del 2001. Ma la cosa più scandalosa è avvenuta nel 2004, quando venne inserito nella finanziaria questo passaggio: «L’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 47, secondo comma, della legge 20 maggio 1985, n. 222, relativamente alla quota destinata allo Stato dell’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (irpef) è ridotta di 80 milioni di euro annui a decorrere dal 2004». Avete letto bene: ogni anno la quota di otto per mille destinata allo Stato dovrebbe essere decurtata alla fonte di 80 milioni di euro (che quest’anno rappresenterebbero quasi il 100 per cento dei fondi!) senza nessuna specificazione circa il loro utilizzo. Poiché vanno a finire nel grande calderone del bilancio dello Stato, è difficile seguire esattamente il percorso di questi danari.
Insomma, questa faccenda dell’otto per mille è un classico pasticcio all’italiana con il danno e pure la beffa per milioni di contribuenti che non riescono a capire che fine fanno i propri soldi. Tutto questo fa quasi rimpiangere i tempi della vecchia congrua, quando almeno tutto era chiaro: l’Italia era uno Stato dichiaratamente confessionale, quella cattolica era la religione di Stato che pagava direttamente per mantenere preti, vescovi e chiese, tutto alla luce del sole. Oggi non è cambiato molto, solo che la luce è stata oscurata da una spessa coltre di ipocrisia".