martedì 8 aprile 2008

Riso e pane alle stelle. L'Africa affamata.

Riporto qui di seguito un commento di Marianna Micheluzzi, dalla "Stampa" del 9 aprile 2008, sull'impennata dei prezzi di riso e pane in Africa e nel mondo.
"Il forte aumento del prezzo e la minore disponibilità sul mercato del riso rischia di far scoppiare proteste e disordini nei Paesi africani, dove già grano e carburanti sono alle stelle.
In Egitto, infatti, uno dei più importanti produttori di cereali ha annunciato la sospensione delle esportazioni di riso per far fronte alla notevole domanda sul mercato interno, evitare il rialzo dei prezzi e di conseguenza le proteste degli strati più poveri della popolazione.
Anche l'India,terzo esportatore mondiale di riso,ha bloccato l'esportazione di tutte le qualità di riso, tranne il prezioso "basmati",apprezzato dai buongustai di tutto il mondo, il quale però per il prezzo elevato non è commercializzato in Africa.Tanto in India quanto in Cina, rispettivamente inondazioni e gelate, hanno messo a dura prova la produzione con le conseguenze che tutti possiamo immaginare.
Per l'Africa la situazione diviene inquietante perchè, accanto all'aumento del prezzo del riso, c'è da tener ben presente l'aumento del prezzo del grano.
Al Chicago Board of Trade(CBOT), la massima borsa mondiale dei cereali,il frumento, ad esempio, ha visto salire i prezzi del 123%.
Questa nel suo insieme, a detta degli esperti, è una crisi che si autoalimenta.Appena un Paese decide di bloccare le esportazioni di riso e cereali, la speculazione ne approfitta per far aumentare i costi oltre il dovuto. Ed il problema dell'aumento dei prezzi, come sa anche l'uomo della strada, non dipende tanto e solo da chi produce quanto dalle "borse merci", soggette a forti movimenti speculativi.
Abbiamo il CBOT per le granaglie e le borse petrolifere di NewYork e Londra per gli idrocarburi.
Ora, ritornando all'Africa, in Marocco,Mauritania, Senegal e Costa d'Avorio ci sono state e ci sono proteste per il "caro vita". Ma in Centrafrica, uno dei Paesi più poveri del mondo,i generi di prima necessità sono aumentati del 50%, in alcuni casi anche del 100%. E i funzionari statali non ricevono stipendi da mesi.
Cose vecchie e risapute,direte voi! Ma è proprio così difficile praticare sui mercati interni ed internazionali una valida strategia per ottenere una maggiore giustizia sociale?
Non dimentichiamo però che lo sviluppo non è mai stato e non può essere indipendente dalla cultura di un popolo.Diceva René Lenoir,anni fa, nel suo Rapporto Club di Roma: " I metodi raccomandati saranno tanto più capiti ed applicati quanto più le scelte etiche ,che li sostengono, saranno state spiegate ed adottate.Se i poteri pubblici dei PVS faranno proprie queste scelte,solo allora potrà essere elaborata una politica coerente che, in maniera del tutto naturale, affronti e superi largamente il problema alimentare".

Pelagie et l'enfant.


giovedì 3 aprile 2008

La laicità non è un optional.

Riporto qui di seguito un articolo di Gian Enrico Rusconi, apparso sulla "Stampa" il 3 aprile 2008, sulla necessità e diritto di difendere la laicità in Italia, calpestata giornalmente dalle ingerenze del Vaticano e dei cattolici. Un appello che condivido in pieno.
"L’esibizione televisiva della cerimonia del battesimo del giornalista del Corriere della sera Magdi Allam è stato l’ultima prova della inconsistenza del lamento degli uomini di Chiesa che la religione sia esclusa dallo spazio pubblico e mediatico. Settimane or sono le dichiarazioni della Conferenza episcopale italiana, che contenevano una critica esplicita al sistema elettorale vigente, hanno incassato il consenso generale (pur con qualche malumore) sulla legittimità della gerarchia ecclesiastica di esprimersi senza restrizioni anche su temi politici. I due episodi hanno confermato che ciò che in qualunque paese europeo è ritenuto inopportuno, viene accettato come ovvio in Italia. A questo punto, è giusto chiederci quali consegenze derivino per la laicità dello Stato italiano. Non a livello formale, di principio, ma nella concretezza della vita pubblica. La domanda è tanto più interessante in un momento in cui il dibattito pubblico su questo tema è sospeso per tacita intesa nel segno della tregua elettorale. Ma il problema è solo rimosso. I rapporti tra Chiesa e Stato in Italia sono sempre stati considerati una peculiarità (se non una anomalia) imposta dalla singolare storia nazionale. Oggi si preferisce mimetizzarli in vesti nuove come espressione dell’«età post-secolare» che caratterizza l’intero Occidente. Ma ha senso parlare di società post-secolare in Italia che secolarizzata o secolare (che nel linguaggio internazionale equivale al nostro «laico» ) non è mai stata davvero? L’enfasi sull’identità cristiana degli italiani che compensa la caduta della loro pratica religiosa, la deferenza verso il magistero della Chiesa che si accompagna ad un generalizzato analfabetismo religioso, l’appello alla dottrina morale della Chiesa a copertura della sistematica trasgressione privata della morale sessuale e familiare zelantemente sostenuta in pubblico - tutti questi non sono indicatori di una nuova età post-secolare. Sono semplicemente segni dell’impoverimento dell’etica pubblica. Qui si annidano gli equivoci della strategia della Chiesa che si offre come fornitrice di una autentica «etica pubblica» (o ethos comune) e presenta pubblicamente la sua come «la religione della famiglia», senza rendersi conto della incongruenza in cui cade. Gli uomini di Chiesa infatti da un lato hanno difficoltà a comunicare i fondamenti dogmatico-teologici della dottrina a credenti rimasti in grande maggioranza teologicamente minorenni. Dall’altro lato rivendicano per sé un ruolo civil-pedagogico su temi antropologici (famiglia, rapporti sessuali interpersonali ecc.) pretendendo di affrontarli con criteri puramente umano-razionali. Ma poi nel dibattito pubblico introducono come argomento discriminante «la non negoziabilità dei valori» che si giustifica soltanto con una (particolare) visione religiosa. L’espressione «non negoziabilità dei valori», diventata ormai luogo comune, è estremamente ambigua. Nessuno contesta al cattolico o al credente di ogni fede la piena legittimità di comportarsi come tale pubblicamente e quindi di avanzare ragioni che danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma quando queste esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «intrattabilità» nascono serie difficoltà per la democrazia. Infatti allora non si tratta più dell’utilizzo ottimale dello spazio pubblico e dell’accesso al discorso politico che mira alla deliberazione politica, bensì del boicottaggio del processo deliberativo. Detto in altro modo: c’è il pericolo che le pretese/esigenze di riconoscimento identitario di un gruppo (fosse pure numericamente maggioritario) intacchino il principio della cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni comunitariste cioè a forme di pressione o di ricatto politico in nome di esigenze di una particolare identità-di-comunità, (nel caso specifico l’identità di appartenenza all’istituzione-Chiesa). Questa strategia mette pericolosamente sotto pressione la funzionalità della vita democratica. Quando i vescovi criticano la legge elettorale, lo fanno esplicitamente nel contesto del discorso sulla «intrattabilità dei valori» che essi intendono difendere. Sollevano così il sospetto che a loro non sta a cuore la vitalità della democrazia come tale, ma la riuscita elettorale di rappresentanti politici che sostengano senza alcuna esitazione la loro posizione. Di fronte a questa situazione è bene ribadire che in democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto c’è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. Al pluralismo dei convincimenti deve essere subordinato l’impulso di far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri cittadini. Spesso si sente dire: perché dividerci aspramente su questioni (unioni di fatto, unioni omosessuali, fecondazione assistita) che interessano modeste minoranze di popolazione, mentre ci sono problemi assai più urgenti di rilevanza generale? La domanda sembra sensata ma nasconde a stento l’insofferenza verso minoranze considerate «devianti» o «disturbanti», contro le quali si fa valere un ethos comune, dettato di fatto da particolari motivi religiosi che diventano discriminatori. Siamo così riportati al cuore della questione democratica che è tutt’uno con la questione laica. Nella vita pubblica democratica la discriminante fondamentale tra i cittadini non è tra chi crede e chi non crede (o è diversamente credente), ma tra chi riconosce e garantisce la pluralità delle visioni e degli stili morali di vita (come del resto recita in un linguaggio diverso l’art. 3 della Costituzione) e viceversa chi, dichiarando «intrattabili» i propri valori, mette in scena pubblicamente la propria pretesa di verità, si sente investito della missione di orientare in modo autoritativo l’ethos pubblico senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che derivano alla qualità e funzionalità del sistema democratico. Il primo atteggiamento (quello affermativo della «libertà al plurale») è laico, il secondo non lo è. Laica è la disponibilità a far funzionare in modo solidale le regole della convivenza partendo dal presupposto che la molteplicità delle «visioni della vita», delle «concezioni del bene» o della «natura umana» non è una disgrazia pubblica (il famigerato «relativismo») cui non ci si deve rassegnare, ma l’essenza stessa della vita democratica. Di fronte a questa problematica i laici italiani hanno due compiti. Il primo è quello di sottolineare che la laicità non è semplicemente un’opzione privata ( un insieme di credenze omologo ad altri, magari una fede) ma è innanzitutto un criterio e un valore pubblico, che si costruisce sulle virtù personali del civismo e della disponibilità all’attenzione per tutti. Il secondo compito del laico è quello di ricostruire un discorso propositivo sui grandi temi della natura umana, della razionalità e della scienza. È una prospettiva impegnativa per contraddire la tesi che la laicità si ridurrebbe ad una costruzione di regole formali, senza contenuti vincolanti, che andrebbero cercati altrove, nella religione-di-chiesa, depositaria privilegiata di valori e contenuti di senso. È stupefacente che questa tesi sia condivisa - anche sulla grande stampa e nel sistema mediatico - da chi sino ad ieri si dichiarava laico. È il segno della necessità di inaugurare una nuova stagione della laicità".