venerdì 28 marzo 2008

La Cina sbanca in Africa.

Riporto qui di seguito un articolo apparso sulla "Stampa" il 28 marzo 2008, a firma Fabio Pozzo, sull'interesse dei cinesi in Africa.
"La politica economico-finanziaria di Pechino si può tradurre in due parole: «zou chuqu», cioè «vai Oltreoceano». O meglio ancora: «go global». Le grandi società cinesi hanno imboccato la strada dell’estero negli Anni Novanta, ma lo avevano fatto molto in sordina; poi - dopo l’ingresso del Paese nel Wto - con molto più slancio. Le prime acquisizioni-choc risalgono al 2004: Tlc Shanghai rileva la telefonia mobile della francese Alcatel e il marchio Usa dei televisori Rca; Lenovo, la divisione personal computer di Ibm (aziende, entrambe, che comunque producevano già in Cina).«Zou chuqu», però, vale anche per gli istituti finanziari, che forti di risorse valutarie per 1500 miliardi di dollari e di una operazione di ristrutturazione e ricapitalizzazione del settore interno voluta dal governo, che lo ha modernizzato e reso più efficiente (anche per fronteggiare la concorrenza degli intermediari stranieri), hanno aperto la stagione di «caccia grossa». La lista dello shopping - tra il 2007 e questi ultimi mesi - è impressionante. Il fondo sovrano China Investment Corporation (braccio operativo della Banca centrale per gli investimenti all’estero, con un portafoglio di 200 miliardi di dollari), guidato dal presidente Lou Jiwei, ha investito in Usa l’equivalente di 2,72 miliardi di euro nel private equity Jc Flowers, 3,5 nella banca d’affari Morgan Stanley e 2,2 nel fondo Blackstone; Citic Securities, emanazione del governativo Citic Group, era entrato con 681 milioni in Bear Stearns, ma di recente, sull’onda della crisi che ha investito il broker, ceduto a Jp Morgan, ha fatto marcia indietro; Minsheng Bank, una delle più grandi banche cinesi non statali, è diventata socia di Ucbh, capogruppo della statunitense United Commercial Bank; China Development Bank ha investito 2,2 miliardi nell’inglese Barclays; Ping An Insurance è entrata con 1,7 miliardi in Fortis e ha di recente acquisito il 50% del capitale di un asset del gruppo assicurativo franco-belga, mettendo sul piatto altri 2,5 miliardi di euro. Ultimamente, infine, le partecipazioni al collocamento in Borsa di Visa da parte di China Life Insurance, con un investimento di 300 milioni, in questo caso in dollari, e di China Investment Corp, con 100 milioni di biglietti verdi. Europa e Usa, dunque, ma non solo. I cinesi si stanno muovendo anche in Africa. Due i colpi noti: China Development Bank è sbarcata in Nigeria, nell’United Bank of Africa, con 3,4 miliardi di dollari e Industrial & Commercial Bank of China (la prima banca al mondo per capitalizzazione) ha acquisito il 20% di Standard Bank, il più grande «sportello» del Sud Africa, paese che è il primo partner commerciale cinese del continente. Un accordo da 5,6 miliardi di dollari.E’ un fronte, questo africano, che ha per Pechino una valenza strategica molto importante. La Cina, in realtà, era già presente da tempo nel continente nero, dove fu riconosciuta dall’Egitto di Nasser nel lontano 1956. Prima di banchieri e finanzieri, vi sono sbarcati battaglioni di tecnici, presenti oggi in massa in diversi stati. E vi sono arrivate le grandi imprese, che hanno fatto crescere repentinamente - decuplicandoli in pochi anni - gli scambi commerciali sino-africani (50 miliardi di dollari nel 2006).«La rilevanza maggiore l’hanno i cosiddetti contratti globali: in cambio dell’approvvigionamento di materie prime la Cina fornisce aiuti allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti» spiega il professore Giorgio Prodi, esperto di Osservatorio Asia e docente dell’Università di Ferrara. I cinesi si consolidano nel continente nero per garantirsi petrolio, oro, ferro, cromo, platino e altri minerali. Tabacco, legname, cotone. Nuovi fonti alimentari. E nuovi mercati per i propri prodotti manufatturieri a basso costo. «I cinesi stanno ripetendo quanto hanno già fatto l’Europa e gli Usa trent’anni fa» rileva Prodi. Il discorso cambia, invece, se si guarda agli investimenti finanziari diretti della Cina in Africa. «Sotto questo profilo, la percentuale è ancora molto bassa, rispetto al novero delle operazioni su estero di Pechino: il 3%, secondo l’ultimo Rapporto Unctad. Le banche cinesi, per ora, investono soprattutto per supportare la strategia economica del proprio Paese, anziché per fini speculativi». Ciò non toglie che siano ormai entrati - leggi Standard Bank - anche nell’establishment finanziario africano".

lunedì 24 marzo 2008

Quando i tuoi diritti sono un optional. Pasqua vietata all'isola di Gorgona.


Qui di seguito riporto la lettera che ho scritto al ministro dei Trasporti dopo la mia denuncia alla Capitaneria di Porto contro la Toremar, la compagnia concessionaria dei viaggi sulle isole dell'Arcipelago Toscano, dopo essermi stato impedito fisicamente ed arbitrariamente di raggiungere l'isola di Gorgona per il giorno di Pasqua 2008 per passarlo insieme alla mia famiglia.

"Illustre Ministro dei Trasporti, veniamo con la presente a segnalarVi un episodio vergognoso avvenuto il 22 marzo 2008, vigilia di Pasqua, al porto di Livorno, con mia relativa denuncia della Toremar alla Capitaneria di Porto per omissione di pubblico servizio. Oggi, giorno di Pasqua, io e miei tre figli di 11, 9 e 8 anni, passiamo la festività senza la mamma, perchè il comandante della Toremar, sabato 22 >marzo 2008, nonostante le rassicurazioni ufficiali del possibile sbarco sull'isola di Gorgona, ha deciso arbitrariamente di effettuare la corsa solo sull'isola di Capraia, impedendoci di raggiungere la nostra abitazione nel paese dell'isola di Gorgona, dove residiamo da generazioni, e di unire il giorno di Pasqua i bambini insieme alla mamma, che lavora come cuoca alla mensa degli agenti di custodia da tre anni.

A niente sono valsi i pianti dei bambini e della mamma, le nostre richieste e rimostranze ai responsabili Toremar, soprattutto nella veste del comandante della nave e della biglietteria, per una tale decisione ingiusta e contro la legge, dopo due giorni che bivaccavano a Livorno per il mare grosso dei giorni precedenti, senza informazioni e rassicurazioni di nessun tipo. Decisione palesemente arbitraria e di parte, che non era suffragata dalla condizioni metereologiche, ormai in calma, come dimostrava la decisone di effettuare la corsa sull'isola di Capraia (stessa rotta dell'isola di Gorgona che ha solo due corse a settimana invece delle giornaliere di Capraia), dove decine di turisti attendevano di imbarcarsi, contro i pochi passeggeri di Gorgona. L'ennesimo episodio di una non professionale gestione della trentennale dissennata concessione governativa alla compagnia Toremar-Tirrenia, che ritiene che il servizio universale sull'isola di Gorgona sia un optional anche nei giorni di Pasqua e Natale. Figurarsi nei periodi di normale routine.

Ecco, qui di seguito, il testo della denuncia scritto e depositato all'Ispettore Salvatore Di Malta della Capitaneria di Porto, sabato 22 marzo 2008, alle ore 14, affinchè si indaghi, penalmente e civilmente, sull'eventuale comportamento illecito del comandante della nave e dell'intera compagnia Toremar: "Io sottoscritto, Brindisi Antonio, residente all'isola di Gorgona, piazzetta Borgo Vecchio 4, nato a Genova il 22 agosto 1955, denuncio, in data odierna, la compagnia marittima Toremar per omissione di servizio, essendo stato impedito a me e alla mia famiglia di raggiungere la mia abitazione sull'isola di Gorgona, nonostante la partenza regolare della nave sulla rotta Livorno-Gorgona-Capraia, il giorno 22 marzo 2008 alle ore 14, con decisione a mio avviso non motivata da avverse condizini atmosferiche, essendo stato dichiarato possibile lo sbarco dalla Direzione della Casa di Reclusione di Gorgona che gestisce il trafghettamento.

L'accaduto, oltre alla mia famiglia, non ha permesso ad altre famiglie con bambini piccoli di imbarcarsi per Gorgona, nè ad altre decine di persone ferme a Gorgona di raggiungere i propri cari sul Continente. L'episodio è avvenuto davanti a decine di testimoni, esterefatti dal comportamento del personale Toremar, che attendevano di imbarcarsi per Capraia e Gorgona, di fronte allo stesso equipaggio della Toremar, della Capitaneria di Porto a cui era stato chiesto di intervenire, del Corpo di Polizia Penitenziaria che aveva faxato per un urgente sbarco sull'isola e degli avventori del bar "Cellini" di fronte al posto-porto della Toremar.

Noi Le auguriamo Buona Pasqua Signor Ministro perchè la nostra Pasqua è stata un inferno e una delle più infelici della nostra storia familiare.

giovedì 20 marzo 2008

1990. Operazione Frascati-Dakar.


Diplomazia all'italiana. Perdere i propri cari e non sapere più nulla.

Riporto qui di seguito un appello dei familiari dei dispersi in Venezuela a Walter Veltroni, sul comportamento della diplomazia italiana, tratto da un articolo di Flavia Amabile su "La Stampa" del 20 marzo 2008.
"La vicenda dell'aereo scomparso in Venezuela la ricorderete. Otto turisti diretti all'arcipelago di Los Roques finiti all'improvviso nel nulla il 4 gennaio. A bordo c'erano otto italiani. Ne ho scritto il giorno dopo. E ne ho scritto soprattutto un mese dopo, quando i dubbi erano l'unica certezza per i parenti dei dispersi. Sono trascorsi due mesi e mezzo, i familiari non si danno per vinti. Tempestano il ministero degli Esteri di telefonate. Pochi giorni fa ottengono una risposta ufficiale da Elisabetta Belloni, capo dell'Unità di crisi della Farnesina. E' l'ennesimo aggiornamento sull'andamento delle ricerche. Ma i familiari non ne possono più di parole. Hanno contatti con altre persone, controllano le informazioni e accusano la Farnesina di ingannarli. E così una decina di giorni fa scrivono una lettera a Walter Veltroni. Veltroni rimane in silenzio fino a ieri quando telefona ai parenti e assicura il suo impegno: vedrà l'ambasciatore venezuelano in Italia il 28 marzo per parlare della vicenda. Anche Prodi chiama proprio ieri il presidente Chavez e ottiene molte rassicurazioni sul fatto che il suo Paese sta facendo il possibile per recuperare l'aereo, se davvero si è inabissato al largo dell'arcipelago di Los Roques. I familiari ringraziano per le telefonate e le promesse ma la lettera scritta a Veltroni esprime con chiarezza il loro pensiero. Accusano Roma e Caracas di mentire. La riporto per intero perché spiega molto bene i dubbi, le incongruenze e i motivi delle loro accuse:'I Venezuelani ci raccontano che subito si sono levati in volo elicotteri per individuare l’aereo in mare. Tutti sanno invece che i 3 elicotteri del SAR (servizio di soccorso in mare), che avrebbero dovuto essere a Caracas, non erano disponibili: 2 erano stati utilizzati impropriamente per lo scambio degli ostaggi con le FARC in Colombia, uno era fermo per manutenzione; a riprova di ciò, tutte le fonti di informazione e tutti i testimoni oculari sono concordi nel sostenere che i primi ad arrivare nel presunto luogo del presunto incidente sono stati i pescatori !!!! I Venezuelani sostengono che nei giorni immediatamente successivi sono proseguite le ricerche di superficie con un enorme dispiegamento di forze: 3 elicotteri, 3 aerei della protezione civile, 4 aerei militari, 3 navi militari e 6 navi civili. Può anche essere vero, però l’unica cosa ritrovata, cioè il corpo del copilota, ha galleggiato per 9 giorni con un giubbetto salvagente giallo con luce stroboscopica, è stato avvistato dai pescatori che lo hanno segnalato alle autorità competenti ed è stato ritrovato 2 giorni dopo, da un gruppo di ragazzi in gita, arenato sulla spiaggia! La giustificazione della Dr.ssa Belloni, capo dell’Unità di crisi della Farnesina, è stata la sfortuna del personale impegnato nelle ricerche ..…
A detta degli stessi venezuelani nella loro prima relazione scritta, in base a posizione ed altezza dell’aereo al momento del lancio dell’SOS, il relitto si trova fra le 2 e le 6 miglia nautiche dalla costa dell’aricpelago, dove ci sono profondità fra i 400 ed i 1.000 metri. In base a successive comunicazioni, la zona di ricerca è stata delimitata su un’area di 200 km quadrati, dove la profondità minima è di 670 metri e quella massimo intorno ai 1.300 metri. A fronte di questi dati inoppugnabili, le ricerche dei venezuelani si sono svolte per circa un mese con mezzi che arrivavano a 100 metri di profondità, e per il mese successivo a 200 metri; in questi giorni ci sbandierano, come fosse la soluzione a tutti i nostri problemi, l’utilizzo di una nave dotata di strumenti per arrivare a 500 metri di profondità. Noi non riusciamo a capire con quale logica si possano svolgere ricerche a queste profondità, se non per perdere tempo e sperare che i familiari si scordino del loro cari. Se continuiamo con queste ricerche, la nostra unica speranza è che il relitto dell’aereo, con il suo contenuto umano, galleggi a mezz’acqua per farci un piacere. Anche in questo caso, la Farnesina ed i suoi tecnici ci dicono che ‘va bene così, se fosse successo in Italia sicuramente non avremmo fatto di più…..’
La tesi dei Venezuelani è che il pilota sia riuscito ad eseguire un ammaraggio non distruttivo ad una velocità di circa 180 km/h, e che le persone a bordo non siano riuscite ad abbandonare l’aereo prima dell’affondamento che si stima possa essere avvenuto in circa 1 minuto. Per giustificare il ritrovamento del copilota, i venezuelani si arrampicano sugli specchi. Sarebbe l’unica persona a bordo senza cinture di sicurezza in quanto ha il compito di aiutare i passeggeri a sistemarsi in vista dell’ammaraggio; ha il giubbetto salvagente in mano, ed al momento dell’impatto dell’aereo con l’acqua colpisce con il plesso solare un oggetto (la cloche?) che ne causa lo sfondamento e la lacerazione del cuore. Da morto, sarebbe poi uscito dall’uscita d’emergenza o dal portellone che lui stesso avrebbe aperto per abbandonare l’aereo……. Ma se è morto nell’impatto, ha aperto le uscite prima di toccare l’acqua? Ma non era impegnato a sistemare i passeggeri? E anche se fosse, esce il suo corpo e niente altro? La delegazione di tecnici inviati in Venezuela dalla Farnesina ha giustificato l’uscita dall’aereo del solo copilota con il fatto che l’uscita d’emergenza era ad apertura ‘sliding door’ e quindi si sarebbe automaticamente richiusa una volta uscito il copilota.
Ma ci sono le foto di quell’aereo scattate pochi giorni prima, che dimostrano che l’apertura della porta è a battente controvento; se aperta in volo, quella porta non si può più richiudere. Pur nell’evidenza delle contraddizioni venezuelane, i tecnici italiani incaricati dalla Farnesina non hanno nulla da eccepire.
In base alle informazioni trasmesse dalle autorità venezuelane, l’aereo era dotato di scatola nera dotata, fra l’altro, ULB = Underwater Acoustic Beacon, cioè di un dispositivo che in caso di incidente emette delle onde sonore captabili con idonei strumenti (idrofoni) anche in profondità. L’emissione di questi segnali continua finchè si esauriscono le batterie dalla scatola nera, cioè circa 30 giorni. E’ stato subito evidente, a chiunque avesse un minimo di dimestichezza con la materia, che gli idrofoni utilizzati dai venezuelani (arrivavano le foto dalla stampa locale nei primi giorni dopo la sparizione) erano completamente inadeguati a questo tipo di ricerca. Quindi i venezuelani hanno consapevolmente fatto trascorrere i 30 giorni utili svolgendo l’ennesima ricerca inutile, e le autorità italiane sono rimaste a guardare senza muovere un dito. Ci ripetiamo: esiste al mondo qualcuno, oltre a noi familiari, che vuole trovare veramente l'aereo?
Abbiamo avuto modo di conoscere, in questi giorni disperati, la famiglia di un italiano disperso da 11 anni a Los Roques. Il 2 marzo 1997, Mario Parolo e sua moglie Teresa (venezuelana), erano a bordo di un Cessna sulla tratta Caracas-Los Roques. L’aereo non è mai arrivato a destinazione. L’aereo era pilotato da Efrain Rodriguez, fondatore della compagnia Chapi Air. Dopo questo incidente, la compagnia cambia nome in Transven, cioè la compagnia utilizzata dai nostri familiari, ora gestita dai figli di Efrain Rodriguez. Esattamente come nel nostro caso: · non sono mai stati trovati i resti dell’aereo. Dopo qualche giorno viene ritrovato il solo corpo di un passeggero australiano, con la testa fracassata e diverse fratture agli arti, senza acqua nei polmoni; l’ipotesi è che sia morto prima di entrare in acqua, ma nessuno spiega come e perchè; · la Farnesina tiene un comportamento vergognoso, arrivando a scrivere nella relazione finale che per un solo italiano non vale la pena spendere soldi nella ricerca e nel recupero del corpo.
Nonostante la morte per sfondamento della regione toracica e conseguente lacerazione del cuore, le foto del cadavere del pilota (da noi recuperate, perché la Farnesina si è ben guardata da fornircele) mostrano il petto del pilota intatto, senza segni di compressione o escoriazioni, senza ematomi od ecchimosi; · I tessuti del cranio hanno subito un completo scollamento, tanto da rendere completamente irriconoscibile il viso, mentre il resto del corpo appare in buone condizioni; se questo scollamento è avvenuto per gravi lacerazioni, dovrebbero esserci anche traumi ossei sul cranio, che appare invece perfetto; · E’ estremamente singolare che siano stati distrutti completamente i tessuti dei due avambracci, mentre il resto del corpo è in buone condizioni; verrebbe quasi da pensare che sugli avambracci mancanti ci fossero tatuaggi ‘non compatibili’ con il riconoscimento effettuato; · I tessuti molli (il ventre) sono intatti; dovrebbe essere la prima regione del corpo ad essere aggredita dai pesci, che invece si sono limitati a mangiare i bicipiti di entrambe le braccia e poi, sazi, hanno lasciato perdere; · Nella relazione venezuelana si asserisce che il corpo sia stato trasportato da correnti sottomarine per poi riemergere in superficie; l’ipotesi è quantomeno bizzarra, perché i polmoni del copilota sono privi di acqua; · Ammesso e non concesso che sia vero che il corpo è stato sott’acqua ed è riemerso dopo giorni, il salvagente era stato indossato o no? Se era stato indossato, il corpo non può essere andato sott’acqua, ma se non era stato indossato, come ha potuto percorrere 370 km in 10 giorni su correnti di superficie e trovarsi a solo 400 metri dal corpo del copilota, che è stato trasportato da correnti sottomarine?
Esistono 2 contatti radio fra il pilota e le torri di controllo, In base alla prima relazione ricevuta dal Venezuela: · alle ore 9,23 il pilota comunica a Maiquietia di essere a 9000 piedi e di passare sotto il controllo della torre di controllo (se così vogliamo chiamarla) di Los Roques; · alle ore 9,38 il pilota lancia il mayday dicendo di essere a 3000 piedi senza motori. Per scendere da 9.000 a 3.000 piedi, posto che la discesa sia iniziata per lo spegnimento di entrambi i motori, si dovrebbero impegnare circa 7-8 minuti. E' possibile che il pilota, dopo essere entrato in emergenza, abbia aspettato così tanto tempo prima di lanciare il mayday? In caso di deviazione per qualsiasi motivo dal piano di volo prestabilito, la prima cosa che deve fare il pilota è quella di avvertire la torre di controllo, in modo che questa possa provvedere a sgombrare l'area da altri velivoli. E’ inverosimile che un pilota molto esperto (sembra addirittura fosse un istruttore di volo) ci metta 7-8 minuti a ricordarsi di fare questa banale ma fondamentale comunicazione. I tecnici italiani della Farnesina ci hanno spiegato (mentendo) che il pilota per aprire i contatti radio deve lasciare la cloche e con un dito tenere premuto un pulsante, cosa che in momenti di emergenza non può fare. Ebbene, questo è palesemente falso, perché il pulsante radio si trova sulla cloche, come in tutti gli aerei ed elicotteri del mondo, e non bisogna staccare le mani per aprire il contatto radio !!!! 3
Le autorità venezuelane non fanno alcuna ipotesi sulle cause dell’incidente, per cui l’unica informazione (certa?) è che alle 9,38 del 04/01/08 l’aereo aveva entrambi i motori spenti, ma oltre 2 ore di autonomia, in base all’ultimo contatto radio pilota-torre di controllo. I due motori, i relativi sistemi di alimentazione ed i serbatoi sono completamente indipendenti. Statisticamente, e nella pratica aeronautica, si considera impossibile che i due motori abbiano subito contemporaneamente un’avaria, o abbiano contemporaneamente finito il carburante. Se si è spento prima un motore e successivamente l’altro, non si capisce perché il pilota non abbia comunicato subito l’emergenza. Anche nel caso di errore del pilota nel posizionare il selettore, e conseguente alimentazione di entrambi i motori dallo stesso serbatoio, l’autonomia si sarebbe dimezzata da due ad una sola ora, in ogni caso più che sufficiente per arrivare a destinazione.
Vogliamo infine sottolineare il ruolo delle autorità italiane, rappresentate nel nostro caso dall’Unità di Crisi della Farnesina, dalla Dr.ssa Belloni e dai sui collaboratori. Lei potrà capire, Onorevole Veltroni, che il sostegno psicologico conseguente alla sparizione di 4 familiari, ognuno lo deve cercare - e se è fortunato trovare - all’interno del proprio mondo (famiglia, religione, amici, ecc). Quello che noi chiediamo alle Istituzioni è innanzitutto la rigorosa ricerca della verità, e possibilmente l’assistenza su questioni burocratiche, legali, e tecniche. Ebbene, se Lei ha letto quanto scritto in queste pagine, è evidente che dal nostro punto di vista la Farnesina non solo non ha assolto alcuno di quelli che noi ritenevamo essere i suoi doveri, ma ci sta addirittura ostacolando nella ricerca della verità. Sappia infatti che: · la famosa delegazione di tecnici italiani che è andata in Venezuela per conto della Farnesina a verificare, non ha rilasciato ai familiari nemmeno una riga scritta su quanto ha fatto; · l’unità di crisi, nell’unica nota scritta che ci ha rilasciato, ha avuto il coraggio di scrivere ‘Si ricorda, inoltre, che il Ministro degli Affari Esteri D’Alema ha incontrato la sorella di Fabiola Napoli…’, ennesima falsità: Debora Napoli, sorella di Fabiola, ha aspettato il Ministro fuori dal Parlamento e lo ha ‘assalito’ facendogli presente la situazione; il Ministro, con una freddezza degna di un paracarro e senza guardarla in faccia ha risposto ‘mi informerò’ e si è allontanato senza neanche salutarla…… · tutte le traduzioni dei documenti venezuelani fateci avere dalla Farnesina, sono piene di errori e di molti termini che non esistono nella lingua italiana (hanno usato il traduttore automatico di Word?, in questo caso potevamo arrangiarci…..); · probabilmente anche i quesiti posti da noi familiari sono stati tradotti ai venezuelani con la stessa precisione, visto che alla domanda ‘Qual’è la quota alla quale normalmente l’aeronave realizza il tragitto?’ i venezuelani rispondono senza esitare ’32 minuti’; e naturalmente la Farnesina ci gira questa comunicazione senza fiatare….. In conclusione, abbiamo avuto inizialmente il sospetto ed oramai la certezza, che la Farnesina persegua obiettivi ben diversi dai nostri e molto lontani dalla ricerca della verità. E’ oramai chiaro che l’unica preoccupazione della Farnesina è quella di preservare buoni rapporti diplomatici con il Venezuela, non mettere in difficoltà o in imbarazzo uno Stato amico……. Ma a noi chi ci pensa, chi mai ci riporterà a casa i nostri cari fratelli e le nostre dolcissime nipoti, se lo Stato Italiano si comporta in questa maniera?"

venerdì 7 marzo 2008

Ci sono Ong e Ong... .
















Ospito questo contributo di due cooperanti in Senegal, Cinzia e Carola, che hanno un punto di vista, a mio avviso, alquanto veritiero.
"Scrivere su un forum che le ong rubano, fanno spendere soldi ai cittadini e ottengono notorietà con la scusa di aiutare gli altri non è il modo migliore per cambiare il mondo della cooperazione. La situazione è complessa ed è necessario fare attenzione prima di esprimere giudizi. Lo stile di intervento utilizzato dagli attori governativi e non governativi nei progetti di cooperazione allo sviluppo non è uniforme: alcune agenzie governative e ong preferiscono investire in strutture e opere architettoniche; altre decidono di finanziare attività di formazione, avviare casse di microcredito; alcune preferiscono lavorare in prima persona, altre optano per il sostegno ad entità locali già esistenti. Le scelte variano a seconda del contesto e a seconda della filosofia dell'attore coinvolto. La nostra esperienza, due ong italiane che operano a Dakar, ci ha insegnato che nel mondo della cooperazione spesso non esistono nè il giusto assoluto nè lo sbagliato assoluto. Ogni scelta va ponderata in base alla situazione in cui ci si trova.
Organizzare corsi di formazione in elettronica per i giovani di Dakar potrebbe veramente servire a creare nuove professionalità e diminuire la disoccupazione; tuttavia, allestire un'aula per la formazione, quando a Dakar esistono già altri centri, con attrezzature e professori; è di certo uno spreco di soldi. Molto meglio dare borse di studio agli studenti.
Lasciare che gli attori locali facciano proposte in cui si riconoscono invece di imporre progetti pensati in Italia con una logica europea potrebbe essere lo stile giusto per ogni ong; ma che fare se un sindaco della periferia cittadina dove le strade sono piene di buche e non illuminate, le scuole cadono a pezzi e i giovani non hanno istruzione e dunque prospettive chiede di finanziare un servizio per regolamentare i parcheggi e dare le multe oppure un cyber café? A volte le priorità dei locali possono non essere le priorità delle ong straniere e viceversa. A volte chi viene da fuori riesce a vedere in modo più oggettivo e meno interessato quali siano le priorità. Chi stabilisce cosa è giusto fare? A nostro parere, ogni ong dovrebbe considerare le proposte dei locali, ma allo stesso tempo rispettare la propria filosofia e le proprie priorità. Del resto il ruolo di una ong non è ad esempio mostrare ad una comunità rurale quanto sia più utile installare i pannelli solari all'ospedale per far funzionare le apparecchiature durante la notte che montarli alla chiesa o alla moschea per illuminare la preghiera della sera?La presenza del personale espatriato, inoltre, ha una sua ragion d'essere. Che si tratti di volontari o di cooperanti, gli inviati della ong fanno da intermediari tra la realtà locale e la sede italiana e verificano che i finanziamenti erogati vengano spesi nel modo corretto. Certamente devono essere persone competenti e oneste, ma questo, credo, vale per ogni professione, dall'avvocato all'idraulico......E per esperienza personale possiamo assicurarvi che non si arricchiscono, inoltre i salari sono stabiliti, almeno per l’Italia, da tabelle ministeriali".

Conosci l'Africa e poi muori... .


A questo e molti altri interrogativi risponde in maniera parzialmente esaustiva un agile libro edito da Baldini-Castoldi-Dalai da pochi giorni nelle librerie: "L'Africa in guerra", di Alberto Sciortino, coordinatore di progetti di sviluppo per l’Ong "Sud-Sud".
"Nel continente africano- scrive Sciortino- si è venuto a creare un “sistema economico di guerra”, che coinvolge una parte rilevante di risorse, esseri umani, territorio e settori produttivi. Una strategia che è essa stessa un interesse, che si autoalimenta e che oppone “ chi possiede le armi a quelli che ne sono privi”.
L’intento dell’autore, che attinge a contributi di studiosi del settore come Achille M’Bembe, Elikia M’Bokolo, Anna Maria Gentili e Gianpaolo Calchi Novati è quello di porgere una bussola al lettore ingenuo per potersi orientare nella complessità delle vicende socio-economiche e storico-politiche dell’Africa.
Egli spiega che l’economia di guerra ha propri settori specifici come, ad esempio, il traffico di minerali, quello della gomma e quello del legname. E che le armi sono i mezzi di produzione e la valuta di scambio, che creano regole commerciali e specifici soggetti economici.
Un meccanismo interno ai processi di globalizzazione insomma,che produce guerre devastanti e senza soluzione.
Nel Nord dell’Uganda- prosegue Sciortino- fra la popolazione Karimojong, finchè i conflitti clanici erano regolati con armi tradizionali e tenendo conto dell’autorità degli anziani, il numero di vittime è sempre stato limitato. Quando negli anni ’90 sono arrivati dai 30 ai 40mila AK-47, le cose sono notevolmente cambiate.
Possedere un fucile mitragliatore era diventato un elemento di prestigio economico e sociale. Talora il fucile faceva parte della dote in occasioni di nozze. E,quando la pace non dà più da vivere, la guerra costituisce un’alternativa economica.
Il nuovo quadro politico del continente africano purtroppo negli ultimi tempi ha solo moltiplicato elezioni e democrazie di facciata.Lo vediamo ogni giorno. Le classi popolari non decidono nulla e subiscono solo aggiustamenti strutturali ed adeguamenti delle politiche all’economia di mercato.
Gli introiti invece derivanti dai conflitti legati al possesso di risorse sono enormi.
E niente di tutto questo è a vantaggio di una maggiore equità sociale. I numeri parlano chiaro.
Il traffico di diamanti, durante la guerra in Angola, ha fruttato oltre 4 miliardi di dollari.
Irriducibile ad uno schema analitico di tipo eurocentrico,l’Africa sfugge,secondo Sciortino, anche a paradigmi etnici, religiosi o culturali. E, quello che è più assurdo, a ben vedere, nasconde l’esistenza di processi economico-sociali del periodo coloniale.
Abbiamo ancora ben presente quello che è accaduto e forse sta ancora accadendo in Kenya ma la questione dell’”ivorianità”, in Costa d’Avorio, è emblematica.
Quando a partire dal 1999, nel Paese sconvolto da una serie di colpi di stato, il razzismo e l’odio verso chi non fosse ivoriano di nascita vennero fomentati ad arte dalle diverse cerchie al potere ed occorreva trovare un capro espiatorio, lo s’individuò subito negli immigrati del Burkina Faso o della Liberia.
Ma l’Africa è anche terra di saccheggio e di riciclo di prodotti dimessi dal “primo mondo”-sottolinea ancora l’autore di “L’Africa in guerra”. Le armi leggere, per esempio.
Esse costituiscono, data la natura del territorio, un commercio fiorente, alimentato anche dal mercato dell’insicurezza.
Masse di disperati ingrossano le fila della criminalità comune anche in paesi come il Ghana che, ufficialmente, non è mai stato in guerra negli ultimi decenni.
Da dove arrivano le armi?
Dal Sudafrica, ad esempio, con 700 imprese e 25mila addetti. E con la partecipazione di capitali francesi, tedeschi e britannici. Vengono anche dall’Uganda e dall’Egitto. Ma soprattutto sono fornite dalle grandi potenze,Stati Uniti in testa.
Giustificazione di facciata? La lotta al terrorismo.
Gli Usa (si veda l’ultimo viaggio in Africa di Bush) puntano alla fascia settentrionale e saheliana del continente. Con il Marocco infatti hanno firmato un accordo di libero scambio. In Algeria i buoni rapporti con la Nato hanno fatto lievitare la vendita delle armi. La Libia infine ha accordato 11 concessioni minerarie su 15 a compagnie statunitensi. E la cooperazione militare va altrettanto bene.