mercoledì 30 gennaio 2008

Fare gli schiavi in Italia. Ecco come

Qui di seguito, da un articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica", come gli italiani trattano altri essere umani, praticamente come schiavi o animali.
"Da luglio a novembre, un'équipe itinerante dell'onlus MSF (Medici Senza Frontiere) ha condotto un'analisi sulle condizioni di salute, di vita e di lavoro degli stranieri impiegati come stagionali per la raccolta della frutta e della verdura nelle regioni meridionali. Seicento questionari compilati per realtà diverse, ma sempre uguali: dalla piana del Sele al Foggiano, dalla Valle del Belice alla piana di Gioia Tauro.
La fotografia che emerge è di totale sfruttamento: il 90 per cento del campione intervistato non ha un contratto di lavoro e quindi nessuna tutela giuridica per retribuzione, infortuni o previdenza. Lavora in media quattro giorni a settimana per otto-dieci ore al giorno. La metà guadagna tra i 26 e i 40 euro al giorno, ma un terzo 25 euro o anche meno. Il che significa, ad esempio nel foggiano, che la paga per raccogliere un cassone di pomodori da 350 chili è di quattro-sei euro, cui va tolta poi la "tara" di tre-cinque euro giornalieri destinati ai caporali.
Si accetta per non morire di fame, perché alternative non ne esistono.
E se una spinta viene dalla speranza di mandare soldi alla famiglia rimasta nel proprio paese d'origine - soprattutto Africa subsahariana, Maghreb, Sud-Est Asiatico, Bulgaria e Romania - il sogno si infrange per il 38 per cento degli intervistati, che non riesce a mettere da parte neppure un euro.
"Una situazione drammatica e vergognosa per uno stato di diritto e membro dell'Unione Europea, su cui il silenzio è assordante" commenta Antonio Virgilio, responsabile dei progetti italiani di Medici Senza Frontiere. Questo esercito silenzioso di schiavi - il 97 per cento sono uomini e hanno tra i 20 e i 40 anni, rarissime le donne - si muove nell'ombra.
Il 72 per cento non ha permesso di soggiorno, vive ai margini e in maggioranza si sposta seguendo le stagioni della raccolta. Finita la giornata, la sera si rifugia in squallidi tuguri, soprattutto strutture abbandonate, il 5 per cento addirittura per strada. Il 62 per cento delle sistemazioni non ha servizi igienici, nel 64 per cento manca l'acqua. La quasi totalità non ha riscaldamento.
Non solo. Sono sempre più frequenti gli episodi di intolleranza e violenza, denunciati dal 16 per cento degli intervistati.
Gli stagionali fantasma arrivano in Italia in buone condizioni fisiche ma in molti poi si ammalano: per il 72 per cento dei lavoratori visitati da MSF è stato formulato un sospetto diagnostico che poi nel 73 per cento dei casi è risultato in una malattia cronica: patologie osteomuscolari, associate a movimenti ripetitivi e al sollevamento di pesi (22 per cento), o malattie dermatologiche (15 per cento) frequenti in condizioni di scarsa igiene, sovraffollamento e nel lavoro in campagna, in cui si viene a contatto con agenti irritanti e infettivi, che provocano allergie. Poi ci sono le malattie respiratorie (13 per cento) e gastroenteriche (12 per cento), comuni in condizioni di sovraffollamento e di scarsa igiene. E poi carie, patologie del cavo orale, malattie infettive.
Se è vero che la legge garantisce l'accesso alle cure per tutti gli stranieri, regolari e irregolari, la maggioranza non lo sa: il 71 per cento non ha la tessera sanitaria e a distanza di due anni dall'arrivo in Italia, il 59 per cento non ha neppure quella provvisoria, la STP; e il 47 per cento degli immigrati regolari non è iscritto al servizio sanitario nazionale. Un panorama desolante, che molti ignorano e troppi fanno finta di non vedere, denuncia MSF: dai sindaci alle forze dello stato, dalle associazioni di categoria ai ministeri, agli ispettorati del lavoro, che contribuiscono così a considerare la mostruosità come necessaria per sostenere le economie locali.
"Nonostante il cambiamento del panorama politico e le reiterate promesse da parte delle istituzioni nazionali e regionali, MSF non ha potuto riscontrare cambiamenti sostanziali nelle inaccettabili condizioni degli stranieri stagionali" si legge nelle conclusioni del rapporto. "Non solo non è cambiato nulla" ammette Virgilio. "Le cose sono addirittura peggiorate, come nel caso di Alcamo, in Sicilia, dove, dopo anni di indifferenza sono stati finalmente allestiti centri di accoglienza per gli immigrati, ma solo per quelli regolari, seguendo così una logica di ulteriore discriminazione nella discriminazione, sulla base dello status giuridico". Per MSF quello che serve sono criteri minimi di accoglienza per gli stagionali, per far fronte almeno alle emergenze primarie. Nel frattempo l'inferno continua".

martedì 29 gennaio 2008

Pistorius, quando l'handicap non esiste.

Da qualche tempo sto seguendo la vicenda del velocista Pistorius, il sudafricano senza la parte inferiore delle gambe che, con delle particolari protesi artificiali, corre più forte di qualsiasi altro uomo che abbia le gambe. Una notizia e un giovane uomo sorprendente. Sembra che il padre, quando era piccolo, non lo aiutasse a camminare, nè lo considerasse diverso da quelli che hanno tutti gli arti a posto. Il risultato è un grande uomo con tanto coraggio e tanta dignità. Non solo non si è piegato a farsi compatire per il suo handicap ma ha dimostrato che la differenza non era nella mancanza di questo o quella parte del corpo, ma nell'uomo stesso, nella sia forza di volontà e nella sua voglia di partecipare a questa vita.
Da compatire sono invece quelli che hanno deciso di non farlo partecipare alle Olimpiadi come un corridore come gli altri, rimarcando ancora una volta una differenza fisica che lo stesso Pistorius ha dimostrato che non esiste.
P.S. Peccato che qualche anno dopo abbia ucciso la fidanzata modella...

domenica 13 gennaio 2008

La mia Africa/3. Da giornalista ad imprenditore ad Abidjan



Nel 1994 decisi di andare a vivere in Costa d'Avorio, a Grand Bassam, a 30 km dalla capitale Abidjan. Un bel posto tra l'Oceano Atlantico e la laguna di Azureti, pieno di zanzare e di giornate senza tempo. Era l'anno in cui in Italia Berlusconi e company andavano al governo e, stufo anche di traffico e della mia noiosa vita romana, pensai che l'Italia era arrivata al capolinea. Non c'ero andato troppo lontano nel mio giudizio visto quello che è successo da quella data ad oggi.
La casa a Grand Bassam l'avevo già bloccata in uno dei miei precedenti viaggi in cui avevo toccato anche il Ghana, il Togo e il Benin, tanto per non farmi mancare niente ed essere sicuro di aver scelto il posto giusto. Non so perchè, ma quel luogo in Costa d'Avorio aveva su di me l'effetto di una calamita. Il motivo lo capii più tardi, quando misi su famiglia. Presi una tipica villetta con giardino, tornai in Italia e racimolai più soldi possibile, chiusi baracca e burattini e, alla venerabile età di 40 anni, senza moglie e figli, dopo aver salutato i miei innumerevoli amici che non capivano la mia scelta e che mi hanno subito tradito e dimenticato, mi trasferei definitivamente in Africa, quella occidentale di lingua francese, a me più consone per le moe precedenti esperienze africane.
Non avrei mai immaginato che di lì a poco mi sarei sposato con una ragazza del luogo ed avrei avuto tre splendidi bambini.
Tranne qualche sporadica collaborazione, abbandonai il giornalismo al 'Messaggero' di Roma per diventare imprenditore, In poco tempo aprii due ristoranti e un ditta srl di import export.
Il primo ristorante in città - lì si chiamano "maquis" - lo aprii con quella che poi sarebbe diventata la mia compagna. La conobbi due giorni dopo il mio trasferimento a Grand Bassam. Anche lei voleva quel maquis, che chiamammo "Balafon" come il tipico xilofono locale, ma non aveva la disponibilità finanziaria. Così mettemmo la voglia di lavorare e i soldi insieme e ci lanciammo nell'avventura. Il menu era misto locale-francese. Per esempio: salsa di arachidi con pollo e riso oppure entrèe de salade, omelette e patatine fritte. Il tutto annaffiato di ottima birra locale.
Il secondo ristorante, invece, all'inizio era solo una striscia di sabbia tra la laguna e il mare: lo chiamammo "Riflesso" e gli demmo un menu all'italiana: pizza, cannelloni e qualche altro piatto tipico della nostra italica terra. Ospitavamo i dipendenti dell'ambasciata, quelli dell'Olivetti, quelli della Pirelli e qualche altro amante della nostra cucina. Si beveva soprattutto buon vino importato. Lì dal niente costruii una specie di stabilimento balneare, un forno ed una casupola color bordeaux, dalla parte del mare. Dalla parte laguna iniziai, invece, senza mai finirli, a costruire dei bungalows. L'affitto del terreno era di circa 70 euro al mese che pagavo a due splendide vecchiette djoula che venivano a piedi a ritirarlo.
Poi mi presi un commercialista ed aprii un srl, regolarissima. Iniziai anche a fare import-export. L'unica spedizione fu un container di corna di bue per fare i bottoni, in collaborazione con un italiano di Gaeta in Uganda, che poi mi dette la solita fregatura italiana finale. I capannoni erano sul porto, vicino all'abbatoir dove uccidevano i buoi. Per me lavorava un simpaticissimo ragazzo musulmano della Guinea, che mi fregava sì ma non troppo.
Tante attività erano possibili proprio grazie al bassissimo costo della manodopera e, comunque, agli inizi, avevo una cospicua rendita finanziaria. Uno stipendio di un cameriere, per esempio, era solo di 40 euro al mese e quello di una buona cuoca di 100.
La mia vita in Costa d'Avorio era praticamente quella di un ricco qui in Italia. Una bella casa, un guardiano del Burkina Faso, tre servitori, un'autista e tutte quelle cose che avevo in Italia, mangiare compreso. In questa terra, infatti, trovavi di tutto, con raccolti quattro volte l'anno. I supermercati avevano tutto - bastava pagare - compreso il parmigiano e il Brunello di Montalcino. C'erano anche i fast food, le patisserie e i caffè.
Come mezzo di trasporto mi presi una "Subaru 4x4 station wagon", ma avrei fatto meglio a prendermi un'eterna "Peugeot".
Poi iniziò la mia avventura quotidiana in terra africana. Sette anni a fare...le stesse cose che si fanno in ogni parte del mondo: mangiare, dormire, lavorare, divertirsi, amare e via dicendo. Mi sto ancora chiedendo di che cosa parlano i missionari nei simposi italiani per farsi belli... . Lì quando parlavi di missionari cristiani, dicevano: "ma quei poveracci che ci vengono a fare qui... ". Altri , invece, sfruttavano le onlus per i loro fini. La povertà, si c'era, come c'è in alcune zone d'Italia, ma era inserita in un contesto più modesto e armonioso. Fra l'altro, la miseria nasceva sempre nel contatto tra il nostro mondo e quel mondo. Non sul luogo.
La vera miseria nasceva, per esempio, nelle piantagioni di banane delle multinazionali francesi ed americane, dove i raccolti erano già degli occidentali ancor prima della semina e dove un contadino veniva trattato alla stregua di una vacca in una stalla. O nelle industrie di tonno o al porto. Una volta mi presentai dal responsabile ivoriano del commercio delle banane per propormi come mediatore per una società italiana di Napoli. Il funzionario mi rise in faccia dicendomi che di banane libere non ce n'era più nemmeno l'ombra e che i soldi se li pappava tutti lui, per fare entrare le navi-frigo di Dole e company, lasciando nella miseria i lavoratori locali... .
Ma nei villaggi e nelle campagne della raccoltà di caffè e cacao, di cui la Costa d'Avorio è uno dei maggiori produttori, la miseria non c'era, perchè ogni contadino aveva qualche ettaro di terra e vendeva i raccolti ai mediatori libanesi che passavano con i sacchi a raccoglierli, per poi rivenderli alle multinazionali della cioccolata e del caffè. I prezzi erano bassi alla fonte, ma almeno erano sicuri, e la terra apparteneva ai locali. Era stata una politica dell'ultimo presidente ivoriano illuminato, Boigny, che era stato anche ministro d'Oltremare in Francia. Dopo di lui, la corruzione portò questo splendido e ricco Paese sull'orlo della guerra civile, dove ne sta uscendo a fatica solo ora.
Per questo nel 2000 sono poi ritornato in Italia, per dare qualcosa di più ai miei figli. Ma sono stato accolto da familiari e amici praticamente come un'extracomunitario clandestino da tenere a distanza. Ma questa è un'altra storia di italica ignoranza che continua ancor oggi ad amareggiarmi.
Ci ho passato sette anni in Costa d'Avorio e forse qualcosa di queste terre ho iniziato a cogliere. Di sicuro non quello che i nostri media riversano nelle menti degli italiani viaggiatori organizzati. Avrò modo di parlarne.

venerdì 11 gennaio 2008

La mia Africa/2. Dai gesuiti con Pongo


Nel 1967 avevo solo 12 anni ed avevo appena finito la seconda media nel ghetto a Roma. Mia madre mi aveva messo in collegio insieme a mio fratello e se ne era andata ad insegnare nello Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, prima a Bukavu e poi nella capitale Kinshasa. All'inizio della terza media ci fece venire a vivere con lei. Abitavamo sul Boulevard Patrice Lumumba, avevano un doberman che si chiamava De Gaulle e un boy di nome François. La casa era quella tipica dei coloni belgi: una bella villa con giardino e il tetto in lamiera.
Il primo giorno di scuola fu traumatico: ero iscritto dai gesuiti dalla barba lunga al primo liceo scientifico con i figli delle famiglie più ricche dell'entourage del presidente Mobutu e un pachistano. Appena mi affacciai alla porta della classe tutti si misero a ridere. Non parlavo una parola di francese, anzi di vallone, e dopo tre mesi avevo tutti zero in pagella, ma alla fine dell'anno passai alla grande e la lingua d'Oltralpe non l'ho più dimenticata.
Il mio migliore amico era Pongo, che veniva dal Nord Est dello Zaire, le zone più ricche di giacimenti di minerali di ogni tipo di cui i belgi avevano fatto e continuavano a fare man bassa. Ci divertivamo alla fine delle lezioni a giocare a pallacanestro a piedi nudi sul cemento, a metà giornata quando il suolo superava i 50 gradi.
I nostri amici di famiglia erano una splendida famiglia indiana che, dopo una vita passata in Africa, aveva perso tutte le piantagioni del thé in una rivolta ai confini con il Burundi ed il Rwanda, le figlie dell'ambasciatore cinese e il figlio di quello americano. Nel fine settimana passavamo i pomeriggi da Kitty Sequeira (così si chiamava la signora indiana padrona di casa) con i suoi figli e i nostri amici. Ci preparava dei manicaretti prelibati tipici del Sud dell'India e ci trattava tutti come se fossimo i suoi figli. Da una situazione di ricchezza ora la famiglia si adattava a vivere con il magro stipendio di lei insegnante di inglese al liceo "Sacre Coeur", di alcune suore del Belgio, dove anche mia madre si era impiegata come professoressa di storia e non so più quale altra materia. Gli stipendi, pur cospicui, non arrivavano mai perchè era lo Stato dello Zaire che pagava... .
Praticamente non c'era dialogo tra gli abitanti del luogo e gli occidentali. A parte i ricchi, la maggior parte della popolazione si adattavava a fare lavoretti, come il nostro boy, che alla fine del mese guadagnava circa 30 euro attuali facendosi un mazzo tanto e spendendo tutto nell'alcol, di fronte alle 1000 di mia madre per esempio. La capitale Kinshasa, così come tutte le grandi metropoli africane, pullulava di strani faccendieri che in Europa avrebbebero chiuso sottochiave nelle patrie galere, ma che lì erano qualcuno e riuscivano ad arricchirsi. Come le multinazionali farmaceutiche, per esempio, che mandavano lì loschi figuri a vendere le peggio medecine come fossero dei salvavita. O venditori d'armi travestiti da commercianti.
A parte la scuola non frequentavo le persone del luogo. Mia madre li considereva essere inferiori ma tutte le domeniche andava a messa. Non poteva immaginare che un giorno avrei sposato una donna africana. Io me ne ero innamorato, delle donne del luogo, in Italia, sfogliando un'enciclopedia dove le mostravano nude ed appartenenti ad etnie indietro nel tempo. Nel frattempo, però, flirtavo con una bella belga, non disdegnavo le cinesi figlie dell'ambasciatore e facevo il filo alle figlie della signora indiana. Una pacchia rispetto al collegio dove avevo vissuto a Roma.

giovedì 10 gennaio 2008

La mia Africa


Voglio iniziare a raccontare, magari a puntate nel tempo libero, la mia Africa. Ne ho sentite tante su questo splendido Continente che credo di avere le carte in regola per parlarne senza la superficialità di un viaggio mordi e fuggi del turismo organizzato, o dei libruncoli alla Veltroni, dei viaggi sofisticati alla Moravia o dei film biancovestiti.
Dopo l'Italia, infatti, è dove ho trascorso più anni della mia vita, quelli più felici tra l'altro: due anni in Zaire tra il 67 e il 69, dove lavoravano i miei genitori e andavo a scuola dei gesuiti a Kinshasa, sotto Mobutu; sei anni in Costa d'Avorio tra il 1994 e il 2000; diversi viaggi nel Sahara, Tunisia, Algeria, Marocco, Niger, Mali, Ghana, Burkina Faso, Liberia, Togo e Benin. Eppoi sono stata fidanzato con un ragazza del Marocco, Miriam, per diversi anni, e sono sposato con una donna ivoriana dal 2001, Christine, da cui ho avuto tre splendidi bambini. Credo di aver qualche titolo per parlare di questo Continente, anche se non potrò mai viverlo come lo sperimentano gli stessi africani. Come mi ripete spesso la mia consorte quando tento di raccontare ad altri, davanti a lei, della mia esperienza africana: "Tu dell'Africa e degli africani non hai proprio capito niente!".
Sento di doverlo a tutte quelle persone che vengono giornalmente sfruttate, mal comprese, condannate, giudicate e condannate da noi del cosiddetto "primo" mondo, ricco di informazioni ma povero di conoscenza.
Innanzitutto va sfatata e distrutta l'equazione Africa=povertà. L'Africa sarà carente di alcune risorse come l'acqua, i beni, i medicinali, le tecnologie e via dicendo. Ma è ricca di tanto altro: ha materie prime, ha dignità, ha la natura, ha la spontaneità, ha la danza, ha la musica, ha il rispetto e tante altre belle cose.
Con i dovuti distinguo l'Africa non sono le baraccapoli metropolitane o i bambini denutriti che i nostri media ignoranti ci mostrano, nè sono quell'immagine che i missionari cristiani vogliono farci credere per rimpinguare le loro casse e le loro pancie, nè sono i bambini adottati a distanza per la vanesia delle nostra ipocrita società.
Il vero volto di questo Continente, dove tra l'altro le metropoli sono esattamente come le nostre, sono i villaggi e le etnie dove, anche se mancano tante cose materiali, ma dove c'è equilibrio, pace e armonia tra gli esseri umani, la natura e gli animali. Qui le vere religioni non sono quelle dei grandi numeri, ma l'animismo, un tutt'uno tra uomo, terra e divinità.
Insomma, cari lettori, l'Africa è ricchissima e le sue donne sono, per me, le più belle del mondo. E' qui che nasce l'ospitalità, la voglia di ridere, il viver di niente, la famiglia naturale e chi più ce ne ha ce ne metta.
Qui, laddove non sono arrivate le cattive influnze dei bianchi predatori, la donna è al centro di tutto: della vita, dei figli, della ricchezza e della povertà. Ma qui entriamo nel personale, ne parlerò un altro giorno.

lunedì 7 gennaio 2008

Bianco ama nera e viceversa. L'Italia degli ipocriti...

Ho appena letto la recensione dell'ultimo film della Comencini "Bianco e nero". Come al solito il tema arriva ai media dopo anni di ritardo, infarcito dei soliti luoghi comuni, sempre distanti dalla realtà. Un bravo all'Ambra Angiolini, che inizia ad essermi simpatica. Perchè parlo di questo. Basta guardare la foto a fianco dei miei tre figli multicolor, Riccardo, Roberto e Francesco.
Io vivo la situazione descritta nel film da ben 12 anni ed è ben più tragica di quella descritta nel film basato non so su quali ricostruzioni.
L'Italia, per chi mi legge, non solo è razzista ma anche infarcita di un'ignoranza mista al denaro facile che fa del nostro cittadino medio, si direbbe a Roma, un vero "burino arricchito" senza sostanza.
Nel mio caso, la mia storia personale, intrecciatasi a 40 anni con il matrimonio con una ragazza ventenne della Costa d'Avorio, Christine, conosciuta nel suo Paese e portata in Italia, dopo averla sposata ed aver avuto da lei tre figli, è segnata proprio da continui episodi di razzismo, di impossibilità di avere relazioni giuste e dignitose, dall'abbandono, con una scusa o un'altra, di tutti i miei amici e dei miei familiari. Vi soprenderà, ma è proprio così.
In questi anni ho sempre cercato di far sentire i miei bambini come tutti gli altri. E loro si sentono come tutti gli altri, per fortuna. Ma in tutte le sedi c'è e c'è stata una mistificazione della realtà da parte del cittadino medio italiano che vede lo straniero, a meno che non sia ricco e famoso, un cittadino di serie B, soprattutto se di colore scuro o proveniente dai Paesi dell'Est. Questo senza sapere bene perchè e su quali basi culturali ed etniche si orientano dei giudizi così razzisti.
A partire dalle anziane signore che ogni volta chiedono se i bambini sono stati adottati, per passare dalla dottoressa che fa il vaccino che li definisce "poverini", dalle maestre di asilo e delle elementari che pensano che non capiscano quello che succede così come gli altri alunni italiani, e da tanti altri piccoli e grandi episodi che hanno costellato il mio ritorno e il mio soggiorno in Italia. Per non parlare di mia moglie alla quale quasi mai ci si indirizza con un lei o con signora, ma sempre tutti gli danno del tu, pensando che sia stupida oppure gli parlano come si parla ad un cagnolino addomesticato.
Il discorso sarebbe lungo e non so se la Comencini ha colto nel segno. Di certo i nostri media e la nostra tv non aiutano a capire. Si parla sempre di integrazione, come se il nostro modo di vivere fosse il migliore, senza parlare di comprensione reciproca. Non si hanno nozioni sugli altri Paesi del mondo e, se si hanno, sono basate su luoghi comuni o su viaggi mordi e fuggi organizzati del turismo usa e getta.
Da quando sono tornato definitivamente in Italia dalla Costa d'Avorio otto anni fa, a causa della guerra civile in corso perchè altrimenti non sarei mai tornato, ho dovuto ogni giorno combattere e ribadire la nsotra dignità di famiglia, che non deve nessuna spiegazione a nessuno, che non deve giustificarsi, che non deve leggere un continuo giudizio negli occhi e sulle labbra di quasi tutti quelli che incontra per strada o sul pianerottolo di casa.
Gli italiani sono spesso, tranne qualche rara eccezione, una massa di ignoranti che offendono quotidianamente il prossimo con la loro ostentazione e la loro stupida ricchezza.
Ecco qui di seguito un'intervista apparsa sul sito "Libero" all'attrice franco-senegalese protagonista del film.
"In Italia la conoscono in pochi. Pochissimi. Forse solo chi ha potuto vedere l'ultimo capitolo della trilogia di Abderrahmane Sissako "Bamako", l'originalissimo processo cinematografico alle istituzioni finanziarie internazionali per il quale ha ricevuto parecchie nomination fra cui quella ai César 2006. Ma in Francia è un'attrice, di cinema e teatro, molto nota e molto quotata e per la verità in Europa si può dire sia una delle poche attrici nere note al grande pubblico. E si capisce perché. Nel film della Comencini sembra essere sempre e solo lei al centro della scena. Lei, il suo sorriso, i suoi occhi. Bellissima, estremamente riservata se si tratta di parlare della sua vita privata, ma molto aperta, acuta e interessata sul resto.
Aïssa Maïga nasce a Dakar nel 1975, ma all'età di 4 anni si trasferisce in Francia con la famiglia: suo padre è maliano, sua madre senegalo-gambiana. Lei sceglie la strada dell'arte drammatica all'età di 17 anni e si dà al teatro. Poi arriva il cinema. L'esordio davanti alla macchina da presa è con un ruolo nel cortometraggio: "Le Royaume du passage". Ma è con "Saraka Bo" di Denis Amar, accanto a Yvan Attal e Richard Bohringer che inizia a farsi notare. È stata diretta da prestigiosi registi francesi come Michael Haneke, Claude Berri, Alain Tanner e tra i suoi ultimi film c'è "L'un reste, l'autre part", nel 2004, "Bambole Russe", nel 2005, "Travaux-Lavori in casa", "Paris, je t'aime" e "L'Age d'homme", con Romain Duris nel 2006.
Com'è stata la tua esperienza con l'Italia e con questo film?
"La prima volta che ho letto la sceneggiatura ho riso. E ho riso anche quando ho visto per la prima volta il film. Per me è una storia nuova, anche se vengo dalla Francia: da noi è un tema che praticamente non è mai stato trattato. All'inizio non riuscivo a capire quale fosse la differenza tra la Francia e l'Italia. Poi l'ho capito qual è la relazione dell'italiano con l'altro, col diverso.Ho incontrato gente che si stupiva perché ho il naso alla francese e non un naso dalla forma, secondo loro, tipicamente africana. Ho incontrato donne che mi chiedevano come facevo ad avere la pelle così bella: perché ero nata in Francia? Quindi penso che sia un bene che questo film parli di Africa e africani e dei luoghi comuni che esistono in Italia. D'altra parte quando ho parlato con Sissako del suo prossimo progetto e lui mi ha detto che sarà su una storia d'amore tra un uomo cinese e una mauritana sono rimasta stupita! Ma lui mi ha detto: «Perché?». Ormai il numero di cinesi che si stanno trasferendo in Mauritania sta crescendo sempre di più ed è inevitabile che prima o poi si inizierà a parlare di amori fra persone appartenti a queste due diverse culture".
Che difficoltà hai incontrato a recitare in italiano?
"Imparare un'altra lingua per girare un film è impegnativo ma in realtà mi ha permesso di essere anche più sciolta, meno mentalmente attenta alle parole".
Quali sono le differenze fondamentali tra Francia e Italia?
"Ho vissuto in Italia solo tre mesi, quindi non è facile, non conosco bene la società. Ma in generale non credo si possa fare un vero confronto tra Francia e Italia. La situazione è storicamente molto diversa: in Francia ormai non si può più parlare di coppie miste, ma di coppie francesi. Sono arrivata in Francia a 4 anni e gli episodi di razzismo li ho vissuti sulla mia pelle, quando ero piccola: mi dicevano che ero marrone come la cacca, che ero diversa. E mio padre, che era giornalista ed era intelligente mi diceva: «Se non ti lavi finirai per diventare sporca come i bianchi!». Però io, come la gente della mia generazione, sono cresciuta qui, in mezzo agli europei, appartengo alla stessa classe sociale, condivido gli stessi valori. Qui, in Italia, invece ha ancora senso il discorso sulle coppie miste e sul razzismo perché c'è un genere diverso di immigrazione. Per cui qui sì si deve ancora parlare di integrazione.Anche in Francia però ci sono episodi di razzismo, o no?In Francia esiste un altro tipo di problema, che è la discriminazione, che è un'altra forma di razzismo, più sottile, più insidioso, col quale ci si scontra in ogni ambito, tutti i giorni: quando si vuole affittare casa, quando si vuole iscrivere i propri figli a una determinata scuola, anche sul lavoro e nel cinema stesso. Diciamo che in generale conviene avere un cognome cattolico e avere la pelle bianca. Poi 4 o 5 anni fa si è finalmente iniziato a parlare apertamente di discriminazione, e si è cominciato ad affrontare veramente questa zona d'ombra che esiste fortemente in Francia, malgrado l'integrazione. E la cosa importante è stata che nel dibattito sono stati coinvolti per la prima volta gli oggetti stessi del dibattito. Da allora io e Eriq siamo stati interpellati diverse volte sull'argomento. Per questo trovo comunque singolare che un film del genere non sia mai stato girato in Francia nonostante sia per l'appunto un Paese così cosmopolita, molto più dell'Italia".
"Bianco e Nero" è comunque essenzialmente una storia d'amore, fedifrago, doloroso, complicato dalla questione razziale se si vuole, ma comunque essenzialmente una storia d'amore: ti ci rivedi?
"Sì, è vero: è essenzialmente una storia d'amore fra due persone, indipendentemente dal colore della pelle. Ma non condivido affatto, del mio personaggio, la fantasia erotica che Nadine ha sugli uomini bianchi, la stessa fantasia speculare che ha un qualunque uomo bianco sulle donne nere. Direi che è alquanto bizzarro che in 10 anni e facendo il lavoro che fa Nadine non abbia mai avuto contatti con uomini bianchi e che possa avere questo genere di fantasia! Comunque, quello che mi sembra importante del film è che i due protagonisti sono andati al di là dei cliché e si sono toccati l'anima veramente, il loro è stato il classico coup de foudre.Spero che possa in qualche modo indurre il pubblico italiano ad avere una visione diversa da quella stereotipata che ha della gente d'Africa e dell'Africa in generale".