venerdì 11 gennaio 2008

La mia Africa/2. Dai gesuiti con Pongo


Nel 1967 avevo solo 12 anni ed avevo appena finito la seconda media nel ghetto a Roma. Mia madre mi aveva messo in collegio insieme a mio fratello e se ne era andata ad insegnare nello Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, prima a Bukavu e poi nella capitale Kinshasa. All'inizio della terza media ci fece venire a vivere con lei. Abitavamo sul Boulevard Patrice Lumumba, avevano un doberman che si chiamava De Gaulle e un boy di nome François. La casa era quella tipica dei coloni belgi: una bella villa con giardino e il tetto in lamiera.
Il primo giorno di scuola fu traumatico: ero iscritto dai gesuiti dalla barba lunga al primo liceo scientifico con i figli delle famiglie più ricche dell'entourage del presidente Mobutu e un pachistano. Appena mi affacciai alla porta della classe tutti si misero a ridere. Non parlavo una parola di francese, anzi di vallone, e dopo tre mesi avevo tutti zero in pagella, ma alla fine dell'anno passai alla grande e la lingua d'Oltralpe non l'ho più dimenticata.
Il mio migliore amico era Pongo, che veniva dal Nord Est dello Zaire, le zone più ricche di giacimenti di minerali di ogni tipo di cui i belgi avevano fatto e continuavano a fare man bassa. Ci divertivamo alla fine delle lezioni a giocare a pallacanestro a piedi nudi sul cemento, a metà giornata quando il suolo superava i 50 gradi.
I nostri amici di famiglia erano una splendida famiglia indiana che, dopo una vita passata in Africa, aveva perso tutte le piantagioni del thé in una rivolta ai confini con il Burundi ed il Rwanda, le figlie dell'ambasciatore cinese e il figlio di quello americano. Nel fine settimana passavamo i pomeriggi da Kitty Sequeira (così si chiamava la signora indiana padrona di casa) con i suoi figli e i nostri amici. Ci preparava dei manicaretti prelibati tipici del Sud dell'India e ci trattava tutti come se fossimo i suoi figli. Da una situazione di ricchezza ora la famiglia si adattava a vivere con il magro stipendio di lei insegnante di inglese al liceo "Sacre Coeur", di alcune suore del Belgio, dove anche mia madre si era impiegata come professoressa di storia e non so più quale altra materia. Gli stipendi, pur cospicui, non arrivavano mai perchè era lo Stato dello Zaire che pagava... .
Praticamente non c'era dialogo tra gli abitanti del luogo e gli occidentali. A parte i ricchi, la maggior parte della popolazione si adattavava a fare lavoretti, come il nostro boy, che alla fine del mese guadagnava circa 30 euro attuali facendosi un mazzo tanto e spendendo tutto nell'alcol, di fronte alle 1000 di mia madre per esempio. La capitale Kinshasa, così come tutte le grandi metropoli africane, pullulava di strani faccendieri che in Europa avrebbebero chiuso sottochiave nelle patrie galere, ma che lì erano qualcuno e riuscivano ad arricchirsi. Come le multinazionali farmaceutiche, per esempio, che mandavano lì loschi figuri a vendere le peggio medecine come fossero dei salvavita. O venditori d'armi travestiti da commercianti.
A parte la scuola non frequentavo le persone del luogo. Mia madre li considereva essere inferiori ma tutte le domeniche andava a messa. Non poteva immaginare che un giorno avrei sposato una donna africana. Io me ne ero innamorato, delle donne del luogo, in Italia, sfogliando un'enciclopedia dove le mostravano nude ed appartenenti ad etnie indietro nel tempo. Nel frattempo, però, flirtavo con una bella belga, non disdegnavo le cinesi figlie dell'ambasciatore e facevo il filo alle figlie della signora indiana. Una pacchia rispetto al collegio dove avevo vissuto a Roma.

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