domenica 17 gennaio 2010

Africa e coca

"Sotto il Senegal, in Africa occidentale, c'è uno staterello semisconosciuto più piccolo della Svizzera e con solo un milione e mezzo di abitanti: la Guinea Bissau. Ma adesso quest'ex colonia portoghese - indipendente dal 1974 - sembra destinata a far parlare di sé, essendosi trasformata in un crocevia del traffico di cocaina dal Sudamerica all'Europa.Gruppi paramilitari e terroristici come Hezbollah, Al Qaeda e le Farc colombiane hanno infatti 'investito' sulla Guinea Bissau con grandi risultati. La droga, che viene da Venezuela, Colombia e Brasile, transita indisturbata grazie ad un arcipelago di novanta isole, un governo e un esercito profondamente corrotti e una totale mancanza di controlli. Insomma, il sogno di ogni narcos. La polizia possiede una sola automobile e i sessanta agenti incaricati di combattere i signori della droga possono fare poco o nulla contro criminali equipaggiati con tecnologie avanzatissime, mezzi di trasporto veloci e armi da guerra. Ma non si tratta soltanto di una questione criminale. Quello che preoccupa di più la comunità internazionale, infatti, è il ruolo crescente - in questo business - dell'estremismo islamico. In Guinea Bissau si è insediata da tempo una potente rete illegale libanese che amministra i proventi del commercio di cocaina per finanziare le attività di Hezbollah nella terra dei Cedri, con l'approvazione dei mullah che hanno concesso una fatwa speciale per benedire il traffico. Il quartier generale di questa rete è nella capitale del Paese, Bissau: è un grande albergo di lusso, il Palace Hotel, un edificio rosa e bianco con un pretenzioso colonnato ionico, sulla costa, a soli cinque minuti dall'aeroporto. Appartiene al miliardario libanese Tarek Arezki e qui, nel gennaio 2008, i servizi segreti francesi hanno arrestato Ould Sinda e Ould Sidi Chabarnou, due terroristi maghrebini di Al Qaeda che in Mauritania avevano trucidato a sangue freddo una famiglia di turisti francesi. Oggi la più grande fonte di risorse illegali di Hezbollah è proprio il traffico di droga gestito attraverso la diaspora libanese, un network di comunità ramificato in Africa Occidentale e America Latina. Quando la droga raggiunge le coste della Guinea Bissau, viene suddivisa in piccoli carichi che sono spediti verso il Marocco e il Senegal via mare, o attraverso la Mauritania via terra per poi valicare il Sahara e raggiungere le sponde del Mediterraneo. Interi convogli armati attraversano la regione del Sahel, controllata da gruppi di terroristi posizionati in tutta la regione sahariana. La centrale libanese basata a Bissau alimenta il business direttamente alla fonte, trattando con le Farc colombiane, per conto degli sciiti di Hezbollah, mentre le cellule sunnite di Al Qaeda fanno pagare ai trafficanti una sorta di dazio quando i contrabbandieri attraversano i loro territori, in Mauritania. In pratica, si arricchiscono tutti.Mentre la supervisione e l'organizzazione finanziaria del traffico è concentrata nelle mani dei libanesi, la manovalanza è fornita da una gang locale composta da guineani e nigeriani, coordinati in Guinea Bissau da un locale, Augusto Bliri. Qui Bliri è una leggenda vivente: da ragazzo è riuscito a emergere da Reno, il peggiore degli slum che circondano la capitale, e ha sfruttato la cocaina per costruirsi un impero economico. Oggi, ancora giovane e rampante, gira per la città a bordo di un fiammante Hummer giallo, mentre i suoi vecchi amici continuano a vivere nelle baraccopoli imprigionati dal crack, la droga sintetica sbarcata nel Paese assieme alla cocaina solo due anni fa.Già, il crack. Prima del 2007, in Africa occidentale era sconosciuto: oggi i cristalli maledetti composti dagli scarti della raffinazione della coca - la stessa piaga che venti anni fa fece esplodere le periferie delle metropoli statunitensi - sono diventati uno dei problemi sociali più gravi in Guinea Bissau, dove non esistono strutture per contrastarne il dilagare. Costa pochissimo e dà dipendenza in tempi rapidi, creando altre schiavitù e nuovi drammi. La prostituzione, quasi inesistente fino al 2007, adesso è aumentata e ha fatto moltiplicare il numero di sieropositivi. Come Sadia, una prostituta di vent'anni che passa le sue giornate a fumare 'quisa', il nome locale del crack. Inizia alle 10 del mattino, quando si sveglia, per poi passare la notte a battere. Ha bisogno dei soldi per drogarsi. E non usa preservativo con i suoi clienti, per la maggior parte occidentali che lavorano per le ong, l'Onu o le ambasciate.
La storia di Sadia è uguale a quella di Nadi, Fatima, Carolina e Rosa: farsi di crack qui è comune come da noi fumare una sigaretta. Nessuno ne conosce la pericolosità, i danni a lungo termine sono ignorati, non ci sono centri di prevenzione o recupero. Persino a livello statistico manca qualunque stima della generazione perduta. Perché in poco più di ventiquattro mesi il narcotraffico è riuscito a devastare questo piccolo paese. Ha corroso le strutture sociali e ha scatenato una lotta di potere che ha provocato un'instabilità politica impressionante. Un'idea del caos che regna in questo paese può essere fornita da quanto è successo il primo marzo scorso, quando nell'arco di nove ore la Guinea Bissau ha perso sia il presidente della Repubblica sia il comandante delle forze armate, uccisi entrambi nella guerra per il controllo del traffico che loro stessi avevano incentivato. Gli abitanti hanno saputo degli eventi alla radio, alle otto di sera, quando la consueta musica afropop è stata interrotta da un speaker che parlava, confusamente, di un'esplosione appena avvenuta al quartier generale dell'esercito. Chi quella sera ha provato ad andare a vedere che cosa stava accedendo, ha visto solo le macerie fumanti dell'edificio, con i soldati che puntavano i kalashnikov in faccia a chiunque tentasse di avvicinarsi troppo. Il generale Tagme Na Wai, potente capo di stato maggiore, era stato appena ucciso da una bomba. Poche ore dopo, iniziava a circolare un'altra notizia choc, quella della morte del presidente Joao Bernardo Vieira: assassinato mentre cercava di fuggire dalla sua residenza attaccata da un gruppo di militari fedeli al capo di stato maggiore appena ucciso. In quelle ore, lungo la strada che porta alla residenza di Vieira, la scena era apocalittica: decine di militari che sparavano in aria (e non solo) con le mitragliatrici, la gente che gridava e scappava, la jeep blindata del presidente ancora in mezzo alla strada, crivellata di colpi, con le gomme squarciate e i vetri in frantumi. Anche le auto della scorta erano ridotte in rottami. Sul muro della villetta si vedeva la breccia provocata da un razzo, che aveva trapassato quattro pareti per esplodere in salotto.Qualche ora dopo, nel comando militare, un plotone di soldati armati in stile Rambo sorseggiava un tè sotto un grande albero. "Siamo stati noi a uccidere il presidente Nino", si vantava tale Paul: "Siamo andati a casa sua, per interrogarlo sulla bomba che ha ucciso Tagme, il nostro generale. Quando siamo arrivati il presidente stava scappando con sua moglie. All'inizio ha negato tutto, ma poi ha confessato. Non solo ha ammazzato Tagme, ma ci ha reso anche la vita impossibile: siamo senza stipendio da sei mesi. Dopo avergli sparato, con un machete gli abbiamo tagliato le mani, le gambe e la testa. Adesso è morto di sicuro", ha chiuso Paul, scoppiando in una risata fragorosa, seguita da quella dei suoi uomini. A Vieira, dal settembre scorso, è seguito un altro presidente, Malam Bacai Sanhá. Ci si chiede quanto durerà, mentre sulla costa continuano a passare i carichi di coca diretti in Europa". (Marco Vernaschi-La Repubblica)

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