"Ciprian, dieci anni, voleva solo che qualcuno stesse in ansia per lui quella sera che ha camminato per ore e poi si è buttato a dormire nell’androne di un palazzo. È tornato senza dire nulla, nella sua casa giallina lungo uno sterrato che non porta in nessun posto, e adesso scaglia pallonate rabbiose contro la gabbia vuota dei conigli. Anche sua sorella Gabriela, 15 anni, ogni tanto va via. La vedono per Târgul Frumos con una prostituta, dicono, ma non ha proprio l’aria da ragazzaccia ora che esce in tuta nell’orto umido, lunga e acerba, le maniche rimboccate. Stava lavando i piatti, è la donna di casa. Georgeta, la madre, da un anno fa la badante a Sabaudia. Loro stanno con un padre mite, che lavora quando capita. Di lei, ai figli restano la minuscola foto della patente, una telefonata a settimana, i dolci che ogni tanto carica sull’autobus per Iaşi, la promessa che presto tornerà con tanti soldi. «Mi manca in ogni momento della giornata» Gabriela ha gli occhi lucidi «con papà non parlo come con lei. E per lui la casa non è mai pulita».
Nella campagna piatta attorno a Iaşi, il principale centro della Moldavia romena, capita di incontrare vecchi e bambini mentre gli adulti inseguono chimere di benessere a Occidente. Sarebbero 4 milioni, quasi un quinto della popolazione, i romeni emigrati, soprattutto in Italia e Spagna. Con la crisi che qui taglia il Pil del 3,5 per cento e gli stipendi del 20, si prevedono altre emorragie umane. E al capolinea orientale d’Europa si parla già di “orfani da migrazione”: una generazione affidata alle cure di nonni, zii, vicini. L’Unicef ne stima 350 mila nel Paese, di cui un terzo in Moldavia dove una famiglia non percepisce più di 2.140 lei al mese, 510 euro. Gli esperti studiano questo nuovo disagio minorile, che promette malissimo per il futuro del Paese: «A scuola rendono poco, e sono a rischio delinquenza» spiega Alex Gulei di Alternative Sociale, un’associazione di Iaşi che è stata la prima, nel 2005, a interrogarsi sull’abbandono da emigrazione. «Con la crisi in Italia e Spagna, non sono più i padri a partire per lavorare nei cantieri. Oggi se ne vanno le madri: la domanda di badanti e baby-sitter non è calata». I 350 mila “orfani bianchi” ipotizzati dall’Unicef sono per difetto. In Romania, sopravvive dal comunismo il sussidio statale per ogni bambino: 65 euro al mese fino ai due anni, 10 fino ai 18, ma se i genitori vivono in patria. Così tanti raccontano che mamma e papà lavorano nel villaggio accanto, o a Bucarest. «Solo il 7 per cento di chi va all’estero lo dichiara al Comune, come vorrebbe la legge» precisa Maricica Buzescu, coordinatrice degli psicologi scolastici nel distretto di Iaşi, 63 per 350 istituti, che da tempo chiedono rinforzi per aiutare questi ragazzi difficili. «I figli restano senza tutela legale: un problema, se devono iscriversi a scuola o ricoverarsi in ospedale». La psicologa ricorda bene i quattro recenti suicidi, quattro figli di emigrati impiccati a una cintura, e quelli che ci hanno solo provato: «Soffrono d’ansia e depressione. Oppure sono aggressivi e iperattivi. Gli stessi disturbi di chi è davvero orfano».
A Liteni, un’accozzaglia di tetti aguzzi e steccati in legno vecchio a un’ora d’auto da Iaşi, il preside dell’unica scuola, Gheorghe Moga, fa alzare la mano ai bambini con i genitori all’estero. Quasi tutti, ma non sfoggiano abiti più belli o zainetti alla moda. «Da qui si parte per coprire i bisogni primari» dice Moga. «Mi sono accorto che tanti emigravano quando ho smesso di comprare di tasca mia il pane per i bambini». Anche le insegnanti, a Liteni, prendono un’aspettativa per lavorare in Italia come badanti. «Guadagno 150 euro al mese» ammette Elena Baziluc, quarant’anni, italiano perfetto «a Palermo ne prendevo 900. Ho ristrutturato casa, comprato un’auto e un pezzo di terra, computer e regali per i miei figli. Senza indebitarmi». In genere i genitori tornano dopo qualche anno, ma non sono poche le storie inspiegabili come quella di Iustin e Alexandra, tre e quattro anni, allevati da nonna Emilia a Iaşi. Iustin aveva tre mesi quando la madre Christina è andata a Cipro. Non dà notizie da tanto. «Balla in un club» dice Emilia, senza cattiveria. «È giovane e bella, si è gettata alle spalle il passato».
Il marito lavora pure a Cipro, sono separati. Lui però telefona, manda soldi. Nell’album di foto, Alexandra (che a 4 anni ancora non parla) indica solo il padre. La madre non esiste, per lei. Suceava è più a nord, vicino al confine con l’Ucraina. Anche da qui si fugge per sopravvivere. «Solo una minoranza raggiunge il benessere » informa Narcisa Marchitan, che dirige i Servizi sociali del Comune «gli altri lavorano all’estero senza contratto, saltuariamente. Non tornano perché qui è peggio». E aggiunge: «Abbiamo aumentato il personale per seguire i loro figli. Le situazioni peggiori sono di quelli affidati ai vicini di casa, che non li controllano. Nel 2008, su 338 minori denunciati, 250 avevano almeno un genitore all’estero». Burdujeni sta oltre la vecchia area industriale (sotto Ceausescu, Suceava era nota per le malformazioni infantili da nubi tossiche): era campagna, finché il dittatore che cancellava i villaggi per trasformare i contadini in operai, ha reso il quartiere un’anonima architettura di bloc. Solo la scuola “Miron Costin” è verde e rosa, e ospita un centro diurno di Save the Children per i figli degli emigrati. Sulla moquette rossa una trentina di bambini colora sagome di draghi e foreste. Hanno i genitori a Napoli, Roma, Orvieto, Rieti, Piacenza. Qualcuno parla italiano: «Sono nata a Roma» bisbiglia Giulia, 9 anni «poi i miei mi hanno portata dai nonni. Mi mancano la mattina: mi sveglio e loro non sono lì».
Andreea Petriciac, psicologa di Save the Children, legge il malessere nei loro disegni: «I soggetti ricorrenti? L’attesa dell’autobus; due adulti pieni di bagagli... I nonni s’impegnano per educarli, eppure i piccoli sono insicuri, si attaccano a chiunque: aspettiamo di osservarli nell’adolescenza». Racconta di una tredicenne, anoressica dopo la partenza della madre: quando è tornata in vacanza, lei si è abbuffata convulsamente del cibo cucinato dalla madre. Una scorta d’affetto. Al terzo piano di un bloc, casa piccola e pulitissima, la nonna di Valentin, 10 anni, insiste che il bimbo sta bene e non sa cosa sia la solitudine. Lui mostra le foto della vacanza a Roma dai genitori, lontani da tre anni. «Non sente la mancanza» continua nonna Nicoleta «ieri hanno chiamato, lui giocava al computer e non ha risposto» rimarca, come fosse una cosa normale. Valentin fissa la foto della madre. Bella, giovane, castana. Che gli sorride mangiando un gelato". (Corriere della Sera)
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