sabato 21 febbraio 2009

I nuovi lager.

"Cicatrici, denti guasti, tute da ginnastica, uomini che urlano: «Libertà!». Dalle gabbie spuntano permessi di soggiorno scaduti, domande d’asilo politico, foto di bambini piccoli, ricette mediche consunte. «Ti prego, scrivi il mio nome. Dillo che mi sento male. Non voglio morire qui dentro». Kadel Bkiki, 24-2-1969, Casablanca. «Ma che cazzo di legge fate in Italia? Berlusconi, non puoi farci questo. Non possiamo stare qui sei mesi. Ho sempre lavorato, sempre in nero, sempre per padroni italiani. Voglio una possibilità». Il nuovo centro di identificazione ed espulsione di Torino ha una capienza di 90 posti. Oggi ci sono 76 uomini. La sezione femminile è stata svuotata. Venti donne sono uscite senza preavviso, una festa per cinesi e nigeriane, quasi tutte prostitute. Hanno lasciato il posto a venti tunisini arrivati mercoledì notte da Lampedusa, con un aereo militare. Fatti i controlli medici, li hanno divisi nelle tre aree del centro. Un modo per stemperare le tensioni, dopo un giorno di sciopero della fame. I tunisini di Lampedusa si riconoscono subito. Non sanno l’italiano. Hanno facce particolarmente stravolte. Cerotti in testa e fasciature sulle gambe. «Durante il viaggio verso l’aeroporto ci hanno chiusi dentro il pullman e riempiti di botte», spiegano in francese. Si agitano. Fanno vedere le ferite all’europarlamentare di Rifondazione Comunista Vittorio Agnoletto, che prende appunti seduto in sala mensa. I tavoli sono ancorati al pavimento. Anche le sedie sono fissate al cemento. Tutto è stato costruito a prova di rivolta. I ragazzi tunisini si aspettano qualcosa, ma non succede niente. Televisioni accesa ad altezza soffitto, pubblicità. Calze ad asciugare sulle grate. È un giorno difficile al Cie, per vecchi e nuovi ospiti, ma la definizione non rende giustizia. Nella gabbie è arrivata la notizia del decreto legge. «Non è umano stare qui sei mesi - dice Adil Emahal, 26 anni, marocchino - ammettetelo che questo è un carcere». «Mamma mia», si dispera Nizar. «Bastardi!», urla un ragazzo con i capelli rasati. Nizar, faccia appuntita, dice di avere lavorato a Sanremo come aiutante di un fioraio: «Sette anni senza mai commettere un reato, lo giuro su dio. Ero senza documenti, mi hanno portato al centro. Berlusconi, aiutami, ti prego: cambia legge». Un altro ragazzo fissa l’obiettivo della telecamera: «Escono i mafiosi, solo noi dobbiamo morire dietro alle sbarre». Il vicequestore Rosanna Lavezzaro, dirigente dell’ufficio stranieri della questura di Torino, segue la visita a distanza. Con lei c’è il colonnello della Croce Rossa, Antonio Baldacci. «Lo sciopero della fame è quasi rientrato - spiegano - questa mattina solo quattro ragazzi hanno rifiutato la colazione. I nuovi arrivati, per il momento, non hanno creato problemi. Sono tutti abbastanza tranquilli». Si fanno raffronti con le proteste di Lampedusa e Milano. Passa il carrello con le sigarette. Aranciata di sottomarca e biscotti: la piccola spesa di chi se la può permettere. «Non siamo tutti spacciatori - dice Nizar - chi sbaglia deve pagare, ma salvate gli altri». Sono in pochi ad ammettere di essere stati prima in carcere. Il record di trattenimento al Cie è di un ragazzo algerino qui da 49 giorni. Cresce la tensione. Gli immigrati sanno che i centri sociali stanno organizzando un presidio di solidarietà davanti ai muri del centro: sabato pomeriggio, ore 15. Urlano tutti insieme: «Libertà!». Mani sulle sbarre. Quella di Nourradine fa rumore per l’anello che porta al dito: «Non siamo d’accordo. È una legge che fa male. Troppo difficile, ingiusta. Stiamo soffrendo tanto. Ho lasciato la mia donna che piangeva, dovete aiutarci. Altrimenti sono pronto a morire». Rachid Sebah: «Come potete rimandarci indietro? C’è la crisi in Italia, pensate in Marocco». Tutti si lamentano per il cibo nelle vaschette di carta stagnola: «Carote, sempre carote. Non siamo conigli. E poi dopo mangiato crolli di un sonno tremendo. Cosa ci fanno mangiare?». Tutti sono arrabbiati per le donne che sono state liberate: «Anche noi vogliamo uscire, non è giusto». Stava nascendo qualche storia d’amore. Da gabbia a gabbia. Ma ora si tratta di calcolare il tempo: «Due mesi sono lunghi, sei sono eterni. In Italia non c’è giustizia». Ognuno ha una preghiera da affidare. L’iracheno Cheb Khaled chiede asilo politico. Il marocchino Mohamemed Yanzari vuole vedere sua figlia. Hassan Amadhar vuole la medicina per la sabbia nelle reni. Perché Berlusconi vuole mandarci via?», chiede Hamed Moussadek. Siete clandestini. «È una colpa nascere senza permesso?»". (La Stampa)

2 commenti:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Parole, urla, gridi lanciati nel vento, nel nulla, disperazione nella disperazione, usciti dalla prigione della fame e dell'annientamente per entrare in una nuova prigione, tutta italiana, tutta disprezzabile, nonmeno disumana dell'altra.
Bisogna riconoscere che il fenomeno delle migrazioni di massa è enorme, ma lo Stato italiano non mi pare che stia tentando di umanizzarlo.
Vorrei tanto sapere cosa fanno gli altri paesi della UE: trattano anche loro così questi disperati ?
Io ho l'impressione che si sta avvicinando il momento della resa dei conti all'interno del genere umano e del pianeta stesso.
Vorrei tanto che non si faccia adesso, non voglio starci in mezzo.

ilgorgon ha detto...

L'ipocrisia regna sovrana. Facciamo gli umanitari con proclami di adozioni a distanza, aiuti con le ong, cooperazione, eccettera, e poi mettiamo questa stesse persone in dei veri e propri lager senza che abbiano fatto niente. Facciamo schifo!