Yao aveva 5 anni quando venne a vivere con noi, io e mia moglie Christine. Praticamente era stato abbandonato dai genitori naturali alla nascita ed aveva vissuto prima con la mamma di Christine al villaggio e, alla sua scomparsa, con le sorelle di Christine al popolare quaritere di Youpougon, a nord di Abidjan.
Non c'erano documenti certi sul luogo e la sua data di nascita. Restò con noi sei anni ma, al momento di tornare in Italia, la nostra ambasciata ci impedì di portarlo con noi perchè non risultava in nessun documento ufficiale. Così fu abbandonato di nuovo ad una delle sorelle di mia moglie. Fino ad oggi - sono passati ben otto anni - non siamo riusciti legalmente a riportarlo in seno alla nostra famiglia e continua a vivere in Costa d'Avorio senza dei veri genitori.
Yao - che in baoulè, la lingua dell'etnia locale di mia moglie, significa venerdì - era gracile, dolce, timido e servizievole. Era il figlio di un po' tutte le sorelle di mia moglie che, di certo, non è che se la passavano benissimo. Aiutava al nostro ristorantino e in casa e faceva il baby sitter al mio primogenito Francesco quando nacque. Ma non amava andare a scuola, era un grande bugiardo ed ogni tanto rubacchiava.
In seconda elementare, quando andai a parlare con i maestri alla scuola di Treichville ad Abidjan, scoprii che non andava in classe da quasi due mesi. Bighellonava per la città e poi tornava al residence di Port Bouet sulla laguna Ebriè, dove abbiamo vissuto per meno di un anno, inventandosi le cose più strane.
Un giorno il guardiano della palazzina dove alloggiavamo ci chiese se per caso non avevamo visto la sua radio che gli era sparita. Ci disse che l'unico che era passato per andare a scuola era Yao. Chiedemmo al bambino se l'aveva presa lui ma lui negava ogni responsabilità. Quando la trovammo nella sua cartella di scuola continuò a negare di averla presa lui, pur avendo la radio sotto gli occhi.
Quando non marinava la scuola passava quasi tutto il tempo a giocare con il mio primogenito che gliene faceva di tutti i colori. Erano inseparabili. Ogni tanto però Yao si scordava di essere il suo baby sitter e Francesco si trovava con qualche nuova cicatrice, come quella sul mento che ancora conserva dopo essere rotolato giù dalla scale del terrazzo della casa sull'oceano a Grand Bassam.
L'ultima volta che lo vedemmo fu qualche giorno prima di ritornare definitivamente in Italia, quando la sorella gemella di mia moglie, Denise, venne a trovarci con il bambino. Noi avevamo dovuto mandarlo via perchè una notte non tornò a dormire dopo essere fuggito dalla terrazza dove abitavamo. Denise voleva che lo tenessimo noi perchè era troppo discolo, ma noi il giorno dopo partivamo e dovemmo lasciarlo con lei. Non fu un bell'addio.
Da quel giorno non lo abbiamo più visto. Non siamo riusciti a farlo venire in Italia per il non possibile ricongiungimento. Sappiamo che sta al college ed è ormai grande.
lunedì 25 febbraio 2008
venerdì 22 febbraio 2008
No, caro Veltroni, quella che descrivi non è l'Africa. E il Dio malato vive solo nell'ipocrisia dell'Occidente
Questo articolo che segue è ispirato ad un libro di Walter Veltroni sull'Africa, "I mille volti dell'Africa" diventato al cinema "Forse Dio è malato", che è esattamente la rappresentazione di quello che l'Africa non è. Come se l'Italia fosse stata decritta con i cumuli di immondizia a Napoli, la violenza negli stadi, le uccisioni di mafia e camorra, i malati dei tumori e il cerume televisivo. Quanto descritto nel libro di Veltroni, dopo brevi viaggi touch and go e poi messo nel film, è disinformazione pura piena di stereotipi che danneggia l'Africa. Ecco qui di seguito il testo dei soliti ridicoli africanisti di passaggio. Quanto descritto non è l'Africa ma la nostra rappresentazione di quello che crediamo sia questo splendido Continente.
"I mille volti dell'Africa. Il bambino che passa le giornate a cercare ferro in una discarica, e il cui unico gioco sono un paio di barattoli usati come trampoli. Le donne sieropositive o malate di aids che scrivono i Memory book per i loro figli, nel caso la morte le strappasse agli affetti. I ragazzini angolani seviziati e spesso uccisi dai loro stessi familiari, perché accusati di essere posseduti dal demonio. Le lacrime che riempiono gli occhi di un piccolo orfano, mentre racconta come la madre lo abbia abbandonato. Se Forse Dio è malato fosse solo un film (o, meglio, un docufilm) basterebbero queste immagini, queste voci, questi volti a descriverlo. Ma la pellicola, diretta da Franco Brogi Taviani, è diventata anche qualcos'altro. Qualcosa che riguarda molto da vicino la politica italiana. Visto che l'opera, in uscita nelle nostre sale, è liberamente ispirata all'omonimo libro (edizioni Bur-Rizzoli) che Walter Veltroni ha dedicato alle tragedie e ai desideri degli africani. E allora, nel pieno di una campagna elettorale ancora tutta da giocare, la faccenda si complica. Condannando il prodotto cinematografico a una doppia anomalia: eccesso di visibilità, vista l'associazione col candidato premier del Pd; e assoluta clandestinità televisiva, viste le rigide regole della par condicio. E così, alla presentazione ufficiale di questa mattina, il regista (specialista in documentari, nonché fratello di Paolo e Vittorio Taviani) e la produttrice, Grazia Volpi, non nascondono il loro fastidio: "Abbiamo girato Forse è dio è malato quando Veltroni era solo il sindaco di Roma - racconta Brogi Taviani - e non ci aspettavamo tutto il putiferio che ne è seguito... Sembra che lo abbiamo fatto apposta a uscire adesso, ma non è così. Anzi, la cosa ci dannaggia, dobbiamo rinunciare alle ospitate in tv a causa della par condicio... Ma io mi chiedo: l'Africa ha bisogno di par condicio? Forse avrei dovuto realizzare un film anche da un qualche libro di Berlusconi, così eravamo pari e potevamo presentarli tutti e due dappertutto!.
Interpellati sul perché non si sia deciso magari di posticipare l'uscita, vista la coincidenza con la campagna elettorale, la produttrice e i distributori dell'Istituto Luce spiegano che è stato già talmente difficile piazzare un documentario sull'Africa nelle sale, che pensare di annullare tutto sarebbe stata una follia. "E poi non dimentichiamo - sottolinea Grazia Volpi - che il governo è caduto solo poche settimane fa... la situazione è precipitata all'improvviso". E allora, comunque la pensiate (elettoralmente parlando), ecco a voi Forse dio è malato: docufilm di 90 minuti, punteggiato da una colonna sonora originale e molto bella (calzoni scritte da Giuliano Taviani e Carmelo Travia, e interpretati dalla giovane cantante africana Siya Makuzeni), con racconti in presa diretta - alternati ad alcune ricostruzioni fiction, ma su storie rigorosamente vere - di Angola, Mozambico, Uganda, Senegal, Camerun e Sudafrica. Priva della voce narrante fuori campo, e delle interviste di rito a personale delle ong e altri occidentali esperti della questione, la pellicola preferisce far parlare gli africani. Che di storie da raccontare, ovviamente, ne hanno tante. Alcune sono tratte direttamente dal libro di Veltroni, come quella del senegalese morto al quarto tentativo di raggiungere clandestinamente la Francia, e che dai suoi giovani connazionali e considerato un eroe; altre invece sono diverse. Alcuni temi trattati sono tristemente noti: i bambini soldato, la piaga dell'Aids. Altri sono meno conosciuti, come la piaga dei maltrattamenti ai bambini considerati stregati dal demonio. Il tutto raccontato senza ostentazione né pietismo. E senza ricerca dell'effetto facile: "Avrei potuto inserire scene ben più forti - racconta Brogi Taviani - ma al montaggio finale le ho tolte: non volevo fare alcuna concessione al trash. Del resto anche il libro mi aveva colpito per la sua mancanza di indulgenza". Toni sobri, insomma, sul grande schermo. Anche se in alcuni momenti è impossibile non commuoversi: come quando si vedono le donne sieropositive riunite in un'associazione di sostegno reciproco, che preparano i memory book - con foto, ricordi scritti, consigli - da lasciare ai figli in caso di morte. O quando si vedono i bimbi di uno sperduto villaggio che guardano rapiti Miracolo a Milano di De Sica, grazie alla tenacia di un gruppo di artisti itineranti, che portano il cinema all'aperto nei luoghi davvero dimenticati da Dio. Ma non così lontani come si potrebbe credere, come sottolinea il regista: "Guardando la scena della discarica, come non pensare ai rifiuti di Napoli?".
Interpellati sul perché non si sia deciso magari di posticipare l'uscita, vista la coincidenza con la campagna elettorale, la produttrice e i distributori dell'Istituto Luce spiegano che è stato già talmente difficile piazzare un documentario sull'Africa nelle sale, che pensare di annullare tutto sarebbe stata una follia. "E poi non dimentichiamo - sottolinea Grazia Volpi - che il governo è caduto solo poche settimane fa... la situazione è precipitata all'improvviso". E allora, comunque la pensiate (elettoralmente parlando), ecco a voi Forse dio è malato: docufilm di 90 minuti, punteggiato da una colonna sonora originale e molto bella (calzoni scritte da Giuliano Taviani e Carmelo Travia, e interpretati dalla giovane cantante africana Siya Makuzeni), con racconti in presa diretta - alternati ad alcune ricostruzioni fiction, ma su storie rigorosamente vere - di Angola, Mozambico, Uganda, Senegal, Camerun e Sudafrica. Priva della voce narrante fuori campo, e delle interviste di rito a personale delle ong e altri occidentali esperti della questione, la pellicola preferisce far parlare gli africani. Che di storie da raccontare, ovviamente, ne hanno tante. Alcune sono tratte direttamente dal libro di Veltroni, come quella del senegalese morto al quarto tentativo di raggiungere clandestinamente la Francia, e che dai suoi giovani connazionali e considerato un eroe; altre invece sono diverse. Alcuni temi trattati sono tristemente noti: i bambini soldato, la piaga dell'Aids. Altri sono meno conosciuti, come la piaga dei maltrattamenti ai bambini considerati stregati dal demonio. Il tutto raccontato senza ostentazione né pietismo. E senza ricerca dell'effetto facile: "Avrei potuto inserire scene ben più forti - racconta Brogi Taviani - ma al montaggio finale le ho tolte: non volevo fare alcuna concessione al trash. Del resto anche il libro mi aveva colpito per la sua mancanza di indulgenza". Toni sobri, insomma, sul grande schermo. Anche se in alcuni momenti è impossibile non commuoversi: come quando si vedono le donne sieropositive riunite in un'associazione di sostegno reciproco, che preparano i memory book - con foto, ricordi scritti, consigli - da lasciare ai figli in caso di morte. O quando si vedono i bimbi di uno sperduto villaggio che guardano rapiti Miracolo a Milano di De Sica, grazie alla tenacia di un gruppo di artisti itineranti, che portano il cinema all'aperto nei luoghi davvero dimenticati da Dio. Ma non così lontani come si potrebbe credere, come sottolinea il regista: "Guardando la scena della discarica, come non pensare ai rifiuti di Napoli?".
martedì 19 febbraio 2008
La mia Africa/16. Abdoulaye e i dollari falsi.
Abdoulaye faceva il meccanico e, a tempo perso, l'autista personale di quello o di quello a Grand Bassam, ridente cittadina semituristica a 30 km di Abidjan, la capitale amministrativa della Costa d'Avorio. Presentatomi da un comune amico del luogo, il proprietario delle mura del primo ristorante da me gestito sulla laguna poi rivelatosi un vero sola, come di dice a Roma, Abdoulaye era diventato il mio meccanico e il mio autista di fiducia in terra d'Africa. Quando avevo un problema alla mia Subaru, chiamavo lui e me lo risolveva. Se ero fuori casa per lavoro o per diletto lui accompagnava mia moglie in giro come autista sempre con la mia auto 4x4. In pochi mesi era diventato il mio uomo di fiducia e aveva conquistato le mie simpatie e quelle della mia famiglia.
Abdoulaye non aveva più di 30 anni, era djoula, l'etnia proveniente dalla Guinea commerciante e musulmana, si vestiva in maniera tradizionale e viveva nella zona centrale di Grand Bassam insieme alla sua famiglia. Diverse volte mi invitò a casa sua e me li presentò. Lo portai anche con me in un lungo viaggio in Liberia via terra, proprio per intervenire su eventuali guasti alle diverse macchine del convoglio che avevamo formato. Insomma, di lui mi fidavo. Male me ne incolse.
Un giorno, seduti al mio maquis (il ristorantino) a sorseggiare qualcosa che non fosse alcol, Abdoulaye, prendendola molto alla larga, iniziò a parlarmi di amici con valigie piene di dollari. Che avevano però una particolarità, le banconote erano sporche di un inchiostro particolare. Ma lui conosceva chi poteva ripulirle. Una storia che puzzava lontano un miglio, che in Africa conoscono anche i bambini e che anche in Italia oggi è nota con i servizi di "Striscia la notizia". Ma io, il pollo di turno, nel 1995, pur se con tutte le precauzioni volli andare a vedere la trappola che il mio fido meccanico mi stava preparando a mia insaputa.
Mi disse che la valigia con i dollari sporchi era a casa sua ben nascosta e che l'avevano lasciata lì dei liberiani che l'avevano rubata al presidente Taylor, che aveva macchiato le banconote per non farsele rubare, tanto aveva un diluente segreto per rimetterle a nuovo. Mi convinse ad andare a casa sua e mi mostrò la valigetta con una massa informe di banconote nerastre. Poi mi propose un appuntamento con chi aveva il diluente per fare una prova e verificare che i dollari sarebbero tornati come nuovi. Se mi fossi convinto, con poco meno di seimila euro, avrei potuto ottenere il prezioso liquido ripulendo così tutta la valigia piena di dollari, per un valore di milioni di euro.
Naturalmente non credevo ad una parola di quello che mi raccontava ma, credendo che fosse una persona fidata, volevo vedere fino a che punto si voleva spingere per spillarmi qualche soldo, magari per questo famoso ripulente. Quella forma di persuasione durò qualche mese, lui si prodigò in tutti i modi per far vedere quanto mi voleva bene e ogni tanto tornava a ricordarmi la storia della valigia piena di dollari sporchi. Alla fine, stanco delle sue insistenze, e forse anche un po' convinto dalle sue proposte, gli dissi di farmi vedere i dollari "lavati" che poi avremmo fatto l'affare, pattuendo già da subito che avremmo diviso un terzo a lui e il restante a me. Io, però, dovevo metterci i soldi per il diluente perchè lui non aveva il becco di un quattrino e la sua famiglia era numerosa.
Un giorno mi portò una ventina di dollari buoni dicendomi che provenivano dalla famosa valigia e che la persona con il liquido segreto era arrivata in città. L'affare o si faceva adesso o mai più, mi comunicò Abdoulaye, perchè presto i liberiani sarebbero venuti a riprendersi la valigia. Non so quale momento di farloconneria mi prese, fatto sta che mi recai in banca con il "fidato" meccanico e ritirai quanto serviva per pagare il diluente. Rimisi la somma nelle mani di Abdoulaye e non la rividi mai più... .
I mesi successivi Abdoulaye si inventò le scuse più disparate per giustificare il ritardo e la scomparsa delal valigia piena di dollari. Quando iniziai ad arrabbiarmi e a minacciarlo che sarei andato alla polizia se non mi avesse restituto i soldi che gli avevo dato, Abdoulaye mi rise in faccia dicendomi che li aveva spesi tutti e mi mostrò la sua vera natura, quella di un truffatore. Io di natura scoprii la mia, quella del pirla.
Quella cifra, seimila euro, in Italia non sono molti, ma in Costa d'Avorio erano tantissimi, quasi due anni di uno stipendio medio. Quando ne parlai a mia moglie qualche tempo dopo, lei trasecolò e mi guardò come fossi l'ultimo degli imbecilli. Come dargli torto. Certo per me, pur non credendo fino in fondo alle storie di Abdoulaye, era stato come un gioco e dei soldi persi, in fondo, mi importava fino ad un certo punto. Per la mia moglie africana non era proprio così ed organizzò, all'ivoriana, il recupero della somma a me sottratta, ed anche a lei d'altronde.
Non andò direttamente alla polizia che, in Africa, diciamo è un po' particolare e si presta al miglior offerente. Un giorno invitò a casa nostra a pranzo un commissario di Grand Bassam al quale, onorato del nostro invito, spiegammo più o meno quello che era successo e gli promettemmo un dieci per cento per la somma che riusciva a recuperare. Alla fine del pranzo ci rassicurò e ci promise che ci avrebbe pensato lui. E in effetti lo fece.
Senza prove nè niente, ma basandosi sul nostro racconto di persone perbene e rispettabili, andò a prendere Abdoulaye e lo mise in cella. Il meccanico negava tutto e aveva le lacrime agli occhi. Dopo qualche giorno di gattabuia continuava a negare la truffa ai miei danni ma un suo zio, ricco djoula possidente di bus, intervenne dicendo che i soldi, se mai li aveva presi suo nipote, ormai non c'erano più ma che, comunque, lui si impegnava per Abdoulaye a versare un tanto al mese fino al recupero dell'intera somma. Il commissario ci informò e accettammo la transazione, che fu firmata su un foglio apposito. Riuscimmo a recuperare, in un paio d'anni, la metà della somma, poi lasciammo perdere perchè la famiglia del meccanico continuava a piangere miseria e il commissario nostro amico fu trasferito.
Questa è la storia di Abdoulaye e dei dollari falsi.
Abdoulaye non aveva più di 30 anni, era djoula, l'etnia proveniente dalla Guinea commerciante e musulmana, si vestiva in maniera tradizionale e viveva nella zona centrale di Grand Bassam insieme alla sua famiglia. Diverse volte mi invitò a casa sua e me li presentò. Lo portai anche con me in un lungo viaggio in Liberia via terra, proprio per intervenire su eventuali guasti alle diverse macchine del convoglio che avevamo formato. Insomma, di lui mi fidavo. Male me ne incolse.
Un giorno, seduti al mio maquis (il ristorantino) a sorseggiare qualcosa che non fosse alcol, Abdoulaye, prendendola molto alla larga, iniziò a parlarmi di amici con valigie piene di dollari. Che avevano però una particolarità, le banconote erano sporche di un inchiostro particolare. Ma lui conosceva chi poteva ripulirle. Una storia che puzzava lontano un miglio, che in Africa conoscono anche i bambini e che anche in Italia oggi è nota con i servizi di "Striscia la notizia". Ma io, il pollo di turno, nel 1995, pur se con tutte le precauzioni volli andare a vedere la trappola che il mio fido meccanico mi stava preparando a mia insaputa.
Mi disse che la valigia con i dollari sporchi era a casa sua ben nascosta e che l'avevano lasciata lì dei liberiani che l'avevano rubata al presidente Taylor, che aveva macchiato le banconote per non farsele rubare, tanto aveva un diluente segreto per rimetterle a nuovo. Mi convinse ad andare a casa sua e mi mostrò la valigetta con una massa informe di banconote nerastre. Poi mi propose un appuntamento con chi aveva il diluente per fare una prova e verificare che i dollari sarebbero tornati come nuovi. Se mi fossi convinto, con poco meno di seimila euro, avrei potuto ottenere il prezioso liquido ripulendo così tutta la valigia piena di dollari, per un valore di milioni di euro.
Naturalmente non credevo ad una parola di quello che mi raccontava ma, credendo che fosse una persona fidata, volevo vedere fino a che punto si voleva spingere per spillarmi qualche soldo, magari per questo famoso ripulente. Quella forma di persuasione durò qualche mese, lui si prodigò in tutti i modi per far vedere quanto mi voleva bene e ogni tanto tornava a ricordarmi la storia della valigia piena di dollari sporchi. Alla fine, stanco delle sue insistenze, e forse anche un po' convinto dalle sue proposte, gli dissi di farmi vedere i dollari "lavati" che poi avremmo fatto l'affare, pattuendo già da subito che avremmo diviso un terzo a lui e il restante a me. Io, però, dovevo metterci i soldi per il diluente perchè lui non aveva il becco di un quattrino e la sua famiglia era numerosa.
Un giorno mi portò una ventina di dollari buoni dicendomi che provenivano dalla famosa valigia e che la persona con il liquido segreto era arrivata in città. L'affare o si faceva adesso o mai più, mi comunicò Abdoulaye, perchè presto i liberiani sarebbero venuti a riprendersi la valigia. Non so quale momento di farloconneria mi prese, fatto sta che mi recai in banca con il "fidato" meccanico e ritirai quanto serviva per pagare il diluente. Rimisi la somma nelle mani di Abdoulaye e non la rividi mai più... .
I mesi successivi Abdoulaye si inventò le scuse più disparate per giustificare il ritardo e la scomparsa delal valigia piena di dollari. Quando iniziai ad arrabbiarmi e a minacciarlo che sarei andato alla polizia se non mi avesse restituto i soldi che gli avevo dato, Abdoulaye mi rise in faccia dicendomi che li aveva spesi tutti e mi mostrò la sua vera natura, quella di un truffatore. Io di natura scoprii la mia, quella del pirla.
Quella cifra, seimila euro, in Italia non sono molti, ma in Costa d'Avorio erano tantissimi, quasi due anni di uno stipendio medio. Quando ne parlai a mia moglie qualche tempo dopo, lei trasecolò e mi guardò come fossi l'ultimo degli imbecilli. Come dargli torto. Certo per me, pur non credendo fino in fondo alle storie di Abdoulaye, era stato come un gioco e dei soldi persi, in fondo, mi importava fino ad un certo punto. Per la mia moglie africana non era proprio così ed organizzò, all'ivoriana, il recupero della somma a me sottratta, ed anche a lei d'altronde.
Non andò direttamente alla polizia che, in Africa, diciamo è un po' particolare e si presta al miglior offerente. Un giorno invitò a casa nostra a pranzo un commissario di Grand Bassam al quale, onorato del nostro invito, spiegammo più o meno quello che era successo e gli promettemmo un dieci per cento per la somma che riusciva a recuperare. Alla fine del pranzo ci rassicurò e ci promise che ci avrebbe pensato lui. E in effetti lo fece.
Senza prove nè niente, ma basandosi sul nostro racconto di persone perbene e rispettabili, andò a prendere Abdoulaye e lo mise in cella. Il meccanico negava tutto e aveva le lacrime agli occhi. Dopo qualche giorno di gattabuia continuava a negare la truffa ai miei danni ma un suo zio, ricco djoula possidente di bus, intervenne dicendo che i soldi, se mai li aveva presi suo nipote, ormai non c'erano più ma che, comunque, lui si impegnava per Abdoulaye a versare un tanto al mese fino al recupero dell'intera somma. Il commissario ci informò e accettammo la transazione, che fu firmata su un foglio apposito. Riuscimmo a recuperare, in un paio d'anni, la metà della somma, poi lasciammo perdere perchè la famiglia del meccanico continuava a piangere miseria e il commissario nostro amico fu trasferito.
Questa è la storia di Abdoulaye e dei dollari falsi.
La mia Africa/15. La vita di tutti i giorni... .
Cosa fa un africano nella vita di tutti i giorni? Fa esattamente quello che fa qualsiasi altro essere umano nel mondo: si alza, va a lavorare, mangia, torna a casa e si riposa con la sua famiglia. La differenza è solo nel modo in cui fa queste cose, in come si veste, come parla, come mangia, come balla e via dicendo. La vita in Africa non è nè migliore nè peggiore di qualsiasi altra parte del mondo. E' semplicemente diversa e, se se ne sa cogliere la bellezza, il gioco è fatto. Se, invece, si inizia a giudicare con il nostro punto di vista, con i nostri parametri, tutto sarà sfalsato e non si riuscirà a cogliere la diversità nella sua interezza ed umanità.
La mia vita ad Abidjan, la capitale della Costa d'Avorio dove ho vissuto per sei anni dal 1994 al 2000, era la stessa che facevo in Italia, solo in uno scenario diverso. E così era la vita di tutti i giorni degli ivoriani.
Abidjan, come un po' tutte le capitali africane, assomiglia a qualsiasi altra metropoli nel mondo: grattacieli vicino a quartieri più popolari, banche e ambasciate nei quartieri più ricchi di Cocody e il Plateau, agenzia e compagnie aeree sui boulevard più importanti, hotel di lusso vicino a case più modeste, super e ipermercati vicino alle bancarelle locali.
Da buon europeo, naturalmente, la mia vita assomigliava più a quella di un ricco possidente locale piuttosto che ad un semplice cittadino ivoriano con uno stipendio medio di circa 50 euro al mese (ma c'erano ivoriani molto più ricchi di me, come altri che non mettevano insieme il pranzo con la cena).
Quindi, la mia giornata tipo era: sveglia la mattina non troppo presto, ricca colazione stile inglese, corsa in auto da Grand Bassam, la cittadina a 30 km dalla capitale dove vivevo, ad Abidjan, dove arrivavo prima delle 10 perchè dalle 11 alle 15 tutto era chiuso per il troppo caldo.
Per i due ristoranti che avevo in Costa d'Avorio andavo a fare i soliti giri per i rifornimenti: al mercato del pesce al porto di Abidjan, poi nei supermercati e nei mercati locali. Per la mia regolare società di import-export, invece, passavo al magazzino vicino al mattatoio (esportavo corna di bue per farne in Italia dei bottoni o manici di coltello). Poi via dal commercialsta o in banca, o ad incontrare qualche cliente. Alle 14, se non avevo altri appuntamenti in città, ero a casa e se ne parlava la mattina dopo. Il pomeriggio e la sera seguivo i due ristoranti.
Per un ivoriano medio, invece, come un maestro elementare per esempio, la giornata si svolgeva tale e quale da noi: sveglia la mattina presto, corsa al bus, l'insegnamento a scuola e poi il ritorno a casa. Per una donna ivoriana sposata, che restava a casa, si andava al mercato a fare la spesa e poi si tornava a casa a cucinare per tutti. I ragazzi andavano tutti a scuola.
Nei villaggi (i nostri paesi) i ritmi sono leggermente diversi e lo scenario è più spartano. Ma la vita di tutti i giorni è la stessa: i giovani studiano e i genitori lavorano. E' vero la qualità di vita generale rispetto alla nostra è più bassa, le case a volte sono fatiscienti rispetto ai nostri standard, ma più o meno siamo lì. Ci sono anche Paesi africani più poveri rispetto alla Costa d'Avorio, o magari in preda a periodi particolari della loro storia come una guerra civile, ma la vita di tutti i giorni è sempre quella.
Quell'Africa, descritta da frettolosi turisti occidentali o rappresentata dai media e da sparuti missionari, affamata e malata di Aids, è una vera e propria forzatura che toglie dignità a questa popolazioni. E' un po' come descrivere l'Italia visitando i dintorni della stazioni Termini o gli ostelli dei barboni o delle mense Caritas. O descriverla in un libro come se l'Italia fosse la Napoli riempita d'immondizia. Oppure guardarla dagli occhi di una camera di albergo o di un villaggio turistico senza inoltrarsi tra la sua popolazione.
L'Africa è un'altra cosa, lontana dagli stereopiti occidentali. Va letta con gli occhi di un africano per poterne iniziare a comprendere ed apprezzare la sua unicità.
martedì 12 febbraio 2008
La mia Africa/14. Miriam, la marocchina
Miriam me la ricordo bene. E' stata la mia ragazza per qualche anno una ventina di anni fa. Veniva da Rabat ed era marocchina. Lavorava come guida alla Francorosso ed era venuta a Roma per studiare italiano alla scuola per stranieri "Dante Alighieri". Per pagarsi l'anno sabbatico faceva la baby sitter presso una famiglia di un ottico di viale Libia, al quartiere Trieste. Fra andare e venire restò tre anni in Italia. Poi decise di restare in Marocco ed ora vive a Bordeaux, in Francia, dove si è sposata ed ha dei bambini. Prima di lasciarmi mi offrì un viaggio gratis nel Maghreb, l'unica escursione organizzata della mia vita.
A Casablanca conobbi la mamma di Miriam, una signora berbera, con degli strani segni dipinti sul viso, che mi portava sempre a vedere il nuovo supermercato che avevano fatto nella città. Viveva con la figlia in un pied a terre della città, dove l'aiutava nelle faccende casalinghe nel suo lavoro, all'avanguardia e ben remunerato per la cultura marocchina. Con il mio arrivo misi in crisi il suo fragile equilibrio di berbera musulmana fuori dagli schemi tradizionali, il padre andò su tutte le furie perchè non mi ero presentato prima come il suo futuro sposo e la nostra relazione si fermo lì.
A Casablanca conobbi la mamma di Miriam, una signora berbera, con degli strani segni dipinti sul viso, che mi portava sempre a vedere il nuovo supermercato che avevano fatto nella città. Viveva con la figlia in un pied a terre della città, dove l'aiutava nelle faccende casalinghe nel suo lavoro, all'avanguardia e ben remunerato per la cultura marocchina. Con il mio arrivo misi in crisi il suo fragile equilibrio di berbera musulmana fuori dagli schemi tradizionali, il padre andò su tutte le furie perchè non mi ero presentato prima come il suo futuro sposo e la nostra relazione si fermo lì.
lunedì 11 febbraio 2008
sabato 9 febbraio 2008
La mia Africa/12. Passaggio in taxi brousse con la mitica Peugeot 504
Il viaggio da Abidjan era iniziato al quartiere Treichville nel gennaio del 1998. Con un bus noleggiato qualche giorno prima dovevo recarmi ad Accra, la capitale del Ghana, per poi continuare verso Lomé, capitale del Togo. fino a Cotonou, nel Benin.
Dopo i primi 300 km arrivammo alla frontiera con il Ghana, un ponte che si reggeva per miracolo che univa i due Stati. Il rito del controllo dei passaporti e dei visti durò una mezza giornata. Nel frattempo si oziava all'ombra di enormi alberi fromagères per ripararsi da un sole cocente o si girava per l'enorme mercato al di là del ponte. In Ghana le cose costavano meno che in Costa d'Avorio. Tutti speravano di terminare le formalità di frontiera prima dell'imbrunire, altrimenti ci aspettava una notte all'addiaccio.
Arrivammo ad Accra a notte inoltrata, dopo altri mille chilometri di strada tutte buche e spaventosi incroci con i camion che venivano dall'altra parte. Io alloggiai al Kind David Hotel, un modesto alberghetto al centro della città di proprietà di un ricco ebreo del posto, dove già avevo dormito in altre occasioni. La luce mancava in alcune ore del giorno e delle notte perchè la produzione non era sufficiente per illuminare il Paese tutte le 24 ore. Nei giorni successivi feci diverse escursioni all'interno del Paese con taxi improvvisati. Conobbi la terra degli Ashanti e la dignità di un popolo che stava trovando una strada con le proprie gambe. Vidi i porti fortificati dove i colonizzatori europei avevano portato via decine di migliaia di famiglie riducendole in schiavitù negli Stati Uniti. Conobbi la residenza del due volte illuminato presidente Rawlings, figlio di uno scozzese e di una ghanese, che da generale per ben due volte aveva ripreso il potere e poi lasciato di sua volontà. Ci restai un mesetto.
Poi in aereo arrivai in Benin perchè era impossibile arrivarci via terra. Tra il Ghana e il Togo infatti, le frontiere erano in continua guerriglia e si rischiava la pelle. Dalla capitale Cotonou mi recai a Ganviè, la tipica città sulle palafitte nella patria dove era nato il voodoo.
Poi, con un taxi brousse-peugeot 9 posti arrivai in Togo, in quello che una volta, prima dell'arrivo del dittatore Eyadema, era considerata la svizzera africana.
Il taxi brousse è una vecchia peugeot 504, familiare, di solito di colore bianco, che viene usata in quasi tutti i Paesi africani, soprattutto francofoni, per trasportare le persone ad un prezzo abbordabile per la popolazione locale tra una cittadina e l'altra, (gli sgangherati taxi, invece, girano solo in città a cifre irrisorie, a meno di non concordare un'uscita con gli allampanati guidatori pieni di caffé). Oltre all'autista, il taxi brousse può portare otto persone (due davanti, tre dietro e altre tre in fondo), più un enorma quantità di bagagli. In genere è sovraccarico e si regge per miracolo, ma è facilmente riparabile e si trovano facilmente i pezzi di ricambio anche nei villaggi più sperduti. Sono praticamente delle macchine indistruttibili con cui si può girare tutta l'Africa, anche se a volte ci si ferma una giornata per fare una delle innumerevoli riparazioni on the road. Viaggiare con questi mezzi è un metodo unico per conoscere le persone del luogo, dei posti insospettati, scambiare qualche chiacchera, condividere i loro usi e costumi. Gli odori sono forti e i colori vivacissimi. Un'esperienza indimenticabile e nessun pericolo. Gli africani sono persone miti ed amichevoli e, soprattutto con i non africani, a differenze di noi "bianchi", sono più che ospitali.
Il Togo, comunque, non era sicuro e nella notte si sentivano sventagliate di mitra e si vedevano girare piccole carri armati intorno alla residenza del presidente, proprio accanto allo sfarzoso hotel "Benin City" dove alloggiavo. Nella notte presi un altro taxi brousse e me ne tornai, dopo altre dieci ore di viaggio su piste e asfalto pieno di buche, a Cotonou. Da lì, dopo aver sonnecchiato all'aeroporto ancora chiuso, ripresi un aereo sgangherato e me ne tornai in Costa d'Avorio, dove vivevo già da qualche anno.
venerdì 8 febbraio 2008
La mia Africa/11. Come ti divento un clandestino... .
Entrare in Europa e in Italia con un visto regolare è praticamente impossibile. Le ambasciate italiane di tutti i Paesi a rischio hanno ricevuto dalla Farnesina l'ordine di bloccare al massimo stranieri bisognosi, di trovare ogni cavillo per farli restare nel loro Paese. Così, in terra d'Africa e non solo, ci si ingegna per entrare da clandestini. Poi si vedrà. E ogni Paese ha la sua piazza dove si vende la porta per il paradiso. Anche ad Abidjan, in Costa d'Avorio, era ed è così. Il luogo di smercio è al quartiere centrale degli uffici, i Plateaux.
Qui, alla luce del sole si apre il proprio ufficio improvvisato in mezzo ai giardinetti, davanti alle maggiori banche e alle agenzie delle compagnie aeree. Sulla grande piazza brulicano mercatini improvvisati e imbrogli di ogni tipo. Qualcuno ci azzecca, molti no. Qui si può trovare che ti promette di farti ottenere un visto per l'Italia, la Francia o qualche altro Paese europeo. Qui si promette l'America.
Yao vive a Youpougon, uno dei quartieir più popolosi della capitale amministrative della Costa d'Avorio, e come tanti campa di espedienti. Ogni giorno, come avesse un lavoro fisso, si fa trenta km con il woro-woro, la macchina-taxi cumulativa, per arrivare al suo "ufficio". Però è "accreditato", tra i tanti che te le propongono, per farti arrivare in Europa. Basta pagare, dai mille ai tremila euro.
Ci penserà lui a fare il bollettino falso della banca che dimostra che hai un bel conto con la complicità di un impiegato del credito a cui basterà rubare una fiche che esiste solo sulla carta di un momento, ci penserà lui a fornirti di un falso biglietto aereo preso in prestito a pagamento da un impiegato di un' agenzia aerea a cui non corrisponde nessun posto a sedere su un aeroplano, ci penserà lui a farti avere un pacchetto di traveller's cheques vero che tu gli restituirai finita la pratica all'ambasciata, ci penserà lui a fornirti il passaporto giusto in poco tempo.
Prima però bisogna anticipare i soldi e poi saldare a visto ottenuto. Tutto sulla fiducia. Nessun disperato cliente sa se la trattativa andrà a buon fine ma in molti si indebitano fino al collo o fanno una colletta al villagio per provare ad andare dai "bianchi". Uno solo potrà portare la ricchezza per tutti.... Ma Yao avverte: "Io ci provo con tutte le credenziali giuste, ma se l'ambasciata poi non me lo fa perdi la caparra".
Ma c'è anche chi ti vende il proprio permesso di soggiorno, anche scaduto, ottenuto in Europa qualche mese prima, tanto lui non intende più rientrare là perchè ha troppo sofferto nei Paesi ricchi. Basta cambiarci la foto e procurarsi un passaporto similare. Tanto in Europa chi se ne accorge.
Al massimo, se qualche funzionario solerte si accorge dell'inghippo, ti bloccano qui ad Abidjan all'aeroporto prima di imbarcarti. Ma qui si paga tutto e tutto è risolvibile. "Per loro siamo tutti uguali, con la stessa faccia nera, poveri, disperati e malati... ".
La trattativa si svolge a più riprese. Gli intermediari sono molteplici prima di arrivare a chi possiede la chiave giusta per farti arrivare in Europa in aereo. Qui nessuno ti offre di traversare il Sahara per poi imbarcarti su qualche traghetto pericolante.
Qui si promette l'America perchè qualcuno tra i ricchi d'Occidente ha deciso che l'uomo non è più libero di circolare liberamente.
Qui, alla luce del sole si apre il proprio ufficio improvvisato in mezzo ai giardinetti, davanti alle maggiori banche e alle agenzie delle compagnie aeree. Sulla grande piazza brulicano mercatini improvvisati e imbrogli di ogni tipo. Qualcuno ci azzecca, molti no. Qui si può trovare che ti promette di farti ottenere un visto per l'Italia, la Francia o qualche altro Paese europeo. Qui si promette l'America.
Yao vive a Youpougon, uno dei quartieir più popolosi della capitale amministrative della Costa d'Avorio, e come tanti campa di espedienti. Ogni giorno, come avesse un lavoro fisso, si fa trenta km con il woro-woro, la macchina-taxi cumulativa, per arrivare al suo "ufficio". Però è "accreditato", tra i tanti che te le propongono, per farti arrivare in Europa. Basta pagare, dai mille ai tremila euro.
Ci penserà lui a fare il bollettino falso della banca che dimostra che hai un bel conto con la complicità di un impiegato del credito a cui basterà rubare una fiche che esiste solo sulla carta di un momento, ci penserà lui a fornirti di un falso biglietto aereo preso in prestito a pagamento da un impiegato di un' agenzia aerea a cui non corrisponde nessun posto a sedere su un aeroplano, ci penserà lui a farti avere un pacchetto di traveller's cheques vero che tu gli restituirai finita la pratica all'ambasciata, ci penserà lui a fornirti il passaporto giusto in poco tempo.
Prima però bisogna anticipare i soldi e poi saldare a visto ottenuto. Tutto sulla fiducia. Nessun disperato cliente sa se la trattativa andrà a buon fine ma in molti si indebitano fino al collo o fanno una colletta al villagio per provare ad andare dai "bianchi". Uno solo potrà portare la ricchezza per tutti.... Ma Yao avverte: "Io ci provo con tutte le credenziali giuste, ma se l'ambasciata poi non me lo fa perdi la caparra".
Ma c'è anche chi ti vende il proprio permesso di soggiorno, anche scaduto, ottenuto in Europa qualche mese prima, tanto lui non intende più rientrare là perchè ha troppo sofferto nei Paesi ricchi. Basta cambiarci la foto e procurarsi un passaporto similare. Tanto in Europa chi se ne accorge.
Al massimo, se qualche funzionario solerte si accorge dell'inghippo, ti bloccano qui ad Abidjan all'aeroporto prima di imbarcarti. Ma qui si paga tutto e tutto è risolvibile. "Per loro siamo tutti uguali, con la stessa faccia nera, poveri, disperati e malati... ".
La trattativa si svolge a più riprese. Gli intermediari sono molteplici prima di arrivare a chi possiede la chiave giusta per farti arrivare in Europa in aereo. Qui nessuno ti offre di traversare il Sahara per poi imbarcarti su qualche traghetto pericolante.
Qui si promette l'America perchè qualcuno tra i ricchi d'Occidente ha deciso che l'uomo non è più libero di circolare liberamente.
Viaggio in India.
Il viaggio a Nuova Delhi, nel 1992, fu il primo e l'ultimo che feci in India. Ma con questa particolare realtà avevo a che fare già da una ventina d'anni quando m'imbattei, prima a Livorno e poi a Roma, con il satguru, cioè il maestro della verità, ovvero guru maharaji, o meglio prem pal singh rawat, il cosiddetto guru bambino, poi diventato grande, con tanto di villa a Malibu, in California, e una moglie americana ex-hostess e centinaia di migliaia di seguaci in tutto il mondo, soprattutto in India naturalmente. Probabilmente una figura ai più sconosciuta perchè la tendenza del guru bambino è quella di tenire un profilo basso e di farsi conoscere con il passaparola. Un personaggio carismatico che ha condizionato una parte della mia vita. Di sicuro mi ha insegnato a stare con me stesso e mi ha fatto girare il mondo.
Pilota di aereo (ne possiede uno insieme ad un elicottero), maharaji arrivò in Europa da un piccolo paesino dell'India del Nord senza una lira e accompagnato da alcuni discepoli. Aveva ereditato dal padre la qualifica di maestro della verità e, nonostante la madre e i fratelli maggiori non fossero d'accordo, a tredici anni sbarcò in Inghilterra e poi in America, dove ci restò. Parlava, e parla, della conoscenza di se stessi attraverso una meditazione basata su quattro aspetti fondamentali, la dedizione totale al satguru e la propagazione del messaggio del satguru. In Occidente, inzialmente, era seguito per lo più da hippies, ex hippies, figli di papà, drogati, persi all'ultimo stadio ed anche a tanta gente delle più diverse esperienze ed estrazioni. In India, invece, aveva un largo seguito un po' in tutti gli strati sociali. Venerato come un dio, sapeva parlare al cuore della persona e avevo il dono della grazia. Devo ancora riconoscere, a tutt'oggi che non condivido più questo insegnamento, che era ed è una persona molto particolare e che, se non fosse per molti aspetti degenerativi che ruotavano intorno a lui, ascoltarlo e stare con lui sarebbe sempre una magnifica occasione di vita. Ma fare il discepolo e seguire qualcuno non è mai stato il mio forte e lo ho fatto sempre con tante riserve.
L'ho seguito, a fasi alterne e nella massima libertà, anche se con condizionamenti indiretti e piccole e grandi crisi di disorientamento personale, dai 19 anni, appena dopo la fine del liceo scientifico, fino ai 48. Fino ai 40, single e senza troppi legami, ho girato il mondo per poterlo ascoltare e vederlo, fino a quando ho deciso di trasferirmi in Costa d'Avorio, dove ero arrivato proprio seguendo lui.
In India alloggiavamo in un enorme campo pieno di tende ben organizzate. A fronte di poche centinaia di europei, arrivavano a frotte centinaia di bus stracarichi di indiani, anche gente poverissima che aveva viaggiato per settimane per vedere il satguru, magare dopo anni che non lo vedeva, alzando un polverone rosso che oscurava anche la luce del pieno giorno. All'interno del campo Maharaji aveva una splendida residenza e durante la permanenza teneva discorsi e dava la cosiddetta conoscenza in diverse ore della giornata. Ebbi anche l'occasione di partecipare alla festa dei colori, dove il satguru, con un cannoncino tipo quello delle navi, inondava i suoi seguaci di acqua colorata divertendosi un mondo.
In genere, dopo un incontro con lui in qualsiasi parte del mondo fosse, ce ne tornavamo beati e felici alle nostre case. Ma la gioia - una gioia molto intensa e particolare - durava qualche settimana e, se non si alimentava con un'intensa meditazione e un'assidua partecipazione alle attività del maestro perfetto, scemava fino a farti ripiombare nei più cupi pensieri, in una vita quotidiana ormai avulsa dal sociale e disinteressata da quello che ti succedeva intorno. Allora, per non sentirsi vuoti come un guscio di noci, bisognava tornare a vederlo di nuovo per ritornare in quello stato d'estasi e di grazia sconosciuta a noi occidentali, un po' simile alle caratteristiche di un vero innamoramento. Insomma, una scelta particolare per una vita particolare, che per molte persone continua ancora su una strada tracciata solo dal divino maestro vivente, che non si rifaceva a nesuno scritto se non che alle sue meditazioni. Per la maggior parte della gente e per le religioni tradizionali eravamo parte di una vera e propria setta. Anche mia madre, bigotta incallita della religione cattollica, la pensava così, tanto che a vent'anni mi portò addirittura, per fortuna senza successo, da un'esorcista famoso, un certo padre candido, che a me sembrava un matto. Per fortuna non facevano niente di male a nessuno se non ai noi stessi e alle nostre tasche.
Fu questo l'unico mio viaggio in India.
giovedì 7 febbraio 2008
La mia Africa/10. Convivere con la malaria.
I primi due anni in Costa d'Avorio prendevo regolarmente delle medecine preventive contro la malaria. Erano potentissime e, per evitare di spappolarmi definitivamente il fegato, dovetti smettere di assumerle. Il primo anno, pur abitando in una zona lagunare infestata dai tre tipi di malaria presenti nel mondo, restai immune. Ma il quarto me la beccai e mi curai con una delle tante medicine presenti sul quel mercato, di cui una delle migliori era un prodotto cinese. Era un po' come curarsi una forte influenza anche se i malesseri erano diversi. Mia moglie e le sue sorelle invece erano in parte immuni e quando la malaria arrivava stavano coricati, con febbre alta e un grande dolore alle ossa e ai muscoli che le sconquassava, fino a che la malattia se ne andava da sola. Spesso si curavano con delle erbe medicinali amarissime, tipiche della loro medicina tradizionale, che però facevano il loro effetto.
Il quinto anno come stanziale in terra d'Africa provai anch'io a far passare la malattia malarica restando coricato e soffrendo come un cane, sempre però con un piccolo aiuto dei medicinali che, di anno in anno, divenivano però inutili perchè la malattia aveva il sopravvento sulla cura.
Mi ricordo di un anno in particolare. Vivevo a Grand Bassam, in un altra casa nel villaggio in una palazzina al terzo piano ed era il periodo delle piogge, tra maggio e ottobre. Ricordo che passavo spesso le mie giornate con la malaria sul terrazzo della casa, lo sguardo perso a guardare l'orizzonte con nell'orecchio l'assurdante brulichio del via vai alle fermate dei bus sottostanti la casa, in una specie di dormiveglia perenne, tra la coscienza e l'incoscienza. Il decorso durava dalle due alle quattro settimane e ti lasciava completamente debilitato. Un'altra malattia con quel fisico martoriato avrebbe dato la botta finale. Poi, piano piano, se ne usciva. Ma ogni anno era sempre peggio e i medicinali dovevano aumentare in quota esponenziale.
Da quando sono tornato in Italia non ho più avuto niente ma ho fatto una cura, con delle medicine che si trovavano solo alla farmacia del Vaticano, per liberare il fegato da alcune presenze indesiderate.
Ho capito sulla mia pelle che il problema della mortalità per malaria in quei Paesi dove è ancora presente deriva semplicemente dal fatto che per i locali le medicine sono troppo care e non se le possono permettere. Per questo, chi non sopravvive naturalmente, alla fine muore. Così come poi succede per l'Aids, il colera, la febbre gialla e via dicendo. Ma io ho visto morire anche un bambino di tre anni per una semplice varicella solo perchè la mamma non aveva 20 euro per curarlo... .
Il quinto anno come stanziale in terra d'Africa provai anch'io a far passare la malattia malarica restando coricato e soffrendo come un cane, sempre però con un piccolo aiuto dei medicinali che, di anno in anno, divenivano però inutili perchè la malattia aveva il sopravvento sulla cura.
Mi ricordo di un anno in particolare. Vivevo a Grand Bassam, in un altra casa nel villaggio in una palazzina al terzo piano ed era il periodo delle piogge, tra maggio e ottobre. Ricordo che passavo spesso le mie giornate con la malaria sul terrazzo della casa, lo sguardo perso a guardare l'orizzonte con nell'orecchio l'assurdante brulichio del via vai alle fermate dei bus sottostanti la casa, in una specie di dormiveglia perenne, tra la coscienza e l'incoscienza. Il decorso durava dalle due alle quattro settimane e ti lasciava completamente debilitato. Un'altra malattia con quel fisico martoriato avrebbe dato la botta finale. Poi, piano piano, se ne usciva. Ma ogni anno era sempre peggio e i medicinali dovevano aumentare in quota esponenziale.
Da quando sono tornato in Italia non ho più avuto niente ma ho fatto una cura, con delle medicine che si trovavano solo alla farmacia del Vaticano, per liberare il fegato da alcune presenze indesiderate.
Ho capito sulla mia pelle che il problema della mortalità per malaria in quei Paesi dove è ancora presente deriva semplicemente dal fatto che per i locali le medicine sono troppo care e non se le possono permettere. Per questo, chi non sopravvive naturalmente, alla fine muore. Così come poi succede per l'Aids, il colera, la febbre gialla e via dicendo. Ma io ho visto morire anche un bambino di tre anni per una semplice varicella solo perchè la mamma non aveva 20 euro per curarlo... .
La mia Africa/9. Niamey-Tambacounda su un treno merci
Frascati-Dakar 1990. Il viaggio attraverso il Sahara aveva distrutto le balestre della mia Nissan. Dopo migliaia di chilometri sulle piste dalla Tunisia all'Africa nera, eravamo arrivati finalmente a Niamey, la capitale del Mali, io e Andrea. Dopo una visita al Parco naturale del W, ai confini con il Burkina Faso (con elefanti e babbuini e anche una bella diarrea africana), avevamo deciso di terminare l'ultima tappa del nostro viaggio reportage iniziato a Frascati, tra fine gennaio e gli inizi di aprile del 1990, per verificare l'impatto ambientale della Parigi-Dakar (un servizio che poi ci vendemmo all'Espresso). Da Niamey dovevamo passare attraverso la savana, via Tambacounda, e raggiungere la capitale del Senegal, Dakar, per poi imbarcarci alla volta dell'Italia. Dopo 200 km di pista le balestre della jeep non ressero e, dopo una notta all'addiaccio tra leoni e ululati vari chiusi per la paura dentro la macchina, con una riparazione posticcia di una gomma rimediata dal meccanico di un villaggio sperduto attorcigliata attorno all'unica foglia di balestra rimasta, ritornammo indietro a Niamey. Come arrivare fino a Dakar, 1000 e passa chilometri senza strade asfaltate, con la macchina che nessuno sapeva riparare e senza balestre nuove (per farle arrivare ci sarebbe voluto un mese e tantissimi soldi)?
Dopo due giorni tra la visita al famoso zoo e la frequentazione di localini notturni a Niamey, visto che esisteva un treno che partiva una volta alla settimana per il Senegal, decidemmo di imbarcare la jeep su un carro merci con noi sopra. Pagammo una cifra esorbitante e il viaggio durò tre giorni.
Non era un vero e proprio treno merci come si intende da noi, ma piuttosto una tratta senza fermate che, andando lentissimo, imbarcava gente di ogni tipo un po' dappertutto. Ogni tanto si fermava per ore senza che noi ne capissimo il perchè, poi ripartiva lentamente. Per fortuna ogni tanto sbucavano dalla savana donne e bambini con frutti e cibo, così da poterci sfamare. La notte era fredda e faceva un po' paura.
Arrivammo a Tambacounda, la prima città del Senegal dove iniziava la strada asfaltata, la mattina del terzo giorno stremati. Ci volle una giornata e una paccata di soldi per far scendere la jeep dal vagone merci.
Poi ripartimmo alla volta di Dakar, dove restammo una settimana in albergo a riposarci, con Andrea febbricitante e io che me ne andavo in giro per locali la sera. La jeep la mettemmo in un container per Livorno e noi tornammo in aereo con l'Aeroflot, con un viaggio di due giorni e una notte passata a dormire in uno spartano albergo a Mosca.
Alla fine del viaggio avevo perso 20 chili ed ero un figurino. Eravamo riusciti a portare la bambola frascatana con tre tette da Frascati a Dakar, anche se in verità un po' sbriciolata. Il sindaco sarebbe stato contento.
Fu da questo viaggio che tornò in me l'amore per l'Africa. Nel 1994 mi trasferei in Costa d'Avorio.
martedì 5 febbraio 2008
La mia Africa/8. Onlus all'africana.
Adesso vi racconto come vivere senza lavorare in terra d'Africa. Basta inventarsi una onlus o connettersi con essa a livello locale. Inviare foto di bambini denutriti e sporchi, malati di Aids e via dicendo. Poi basta avere un computer e capire quali sono i requisiti di un progetto per avere i soldi da privati, enti e organismi internazionali. Il gioco è fatto e ora si può vivere di rendita per qualche anno, fino al prossimo progetto, con casa e auto gratis. Provare per credere.
Così, mentre in Occidente si pensa di fare un'opera di bene e ci si mette in pace il cuore ipocrita di chi prima depreda e poi fa la carità, tra gli africani più furbetti si è capito il meccanismo e lo si sfrutta come si può. E a volte ci si scanna anche per poche lire europee che qui, in terra d'Africa, sono sempre tantissime. Evito di parlare di grandi organismi, come la Fao e l'Unicef, che destinano il 75 per cento delle proprie entrate per mantenere i propri dipendenti in ville faraoniche e con stipendi di lusso, facendo finta di aiutare i poveri africani. Così come accade spesso con i deseparicidos missionari.
Ecco qui di seguito un'altra storia personale per chiarire il problema, fermo restando che qualcosa di buono c'è, anche se io preferisco sempre il fai da te, più dignitoso che elemosinare aiuti da un sistema internazionale bancario che affama i più deboli con interessi da capogiro. Per me un esempio di crescita vera è quello dell'India che, dopo aver cacciato i colonizzatori inglesi con Ghandhi, ha sofferto un po' e ora è in pieno boom e ce l'ha fatta da sola. Quando gli americani, durante l'ultimo tsunami, gli volevano mandare aiuti umanitari gli indiani rifiutarono. "Vengono qui con la scusa degli aiuti e poi non se na vanno più. Ce la caviamo benissimo da soli", fu il loro commento. Bravi, bene, bis. Ma veniamo alla nostra esperienza di onlus all'africana.
C'è stato un periodo, tra il 1998 e il 2000, dove a Grand Bassam, in Costa d'Avorio, io e mia moglie abbiamo lavorato per una onlus italiana legata al Gruppo Abele e alla LLVIA. Lei faceva la cuoca ed io controllavo che non ci fossero ruberie in una comunità agricola che aiutava i bambini trovati per la strada con particolari problemi compartamentali. Il centro era molto carino ed efficiente e si trovava nella brousse a 20 km dalla cittadina, in un terreno donato dal vescovo locale, che abitava in una villa lussuosa proprio lì vicino. Si insegnava ai ragazzi ad allevare i polli, le mucche e i maiali per poi venderne la carne agli alberghi dei turisti. Poi c'era anche un riferimento in città con altre attività, tipo i micro prestiti per iniziare piccolo commerci locali. Il responsabile italiano, tale Gabriele, con auto e casa gratis - i cosiddetti volontari - aveva un buon stipendio europeo, mentre i collaboratori locali non superavano i 30 euro al mese. Per questo si dedicavano a tutte le possibili ruberie, compreso scannarsi per avere questo o quel beneficio derivante dai soldi e dai mezzi provenienti dall'Italia.
Così il meccanico rubava pezzi di auto per rivenderseli alle officine del villaggio e gli istruttori prendevano parte della carne e dei polli per rivendersela privatamente. Si faceva la cresta su tutto: soprattutto sui beni acquistati mentre il responsabile locale, tale Gaston, insieme alla fida segretaria, studiava nuovi progetti per far arrivare soldi per i poveri bambini rubati alla strada. Finora Gaston era riuscito ad impadronirsi di un altro progetto, legato ai carcerati locali, ed aveva ottenuto una bella casa e un auto. Poi i soldi del progetto erano finiti e la casa era disadorna e l'auto ferma senza benzina. I carcerati, in Africa, valgono meno di un animale. Figurarsi se qualcuno gli dava qualcosa, si prendevano tutto Gaston e i secondini. Ma questa è un'altra storia finita male. I due volontari italiani, che erano nel progetto del carcere, dovettero fuggire prima che Gaston gli facesse la pelle perchè i soldi erano finiti... .
Il Centro Abele invece era famoso a Grand Bassam: un po' parrocchia, un pò centro agricolo. Forse l'economia più grossa di tutta la cittadina. E stiamo parlando di pochi spiccioli. La mattina il camion ci raccoglieva uno per uno per portarci al centro, dove ognuno aveva le sue mansioni. Mia moglie andava prima al mercato per comprare le cose da cucinare e poi veniva sul camion. Io dovevo girarmi tutti gli allevamenti per controlalre che non avessero rubato i polli e i maiali. Il centro era pieno di serpenti, animali e uomini, che guardavano il mio lavoro come fumo negli occhi. A me mi pagavano come un locale, forse perchè già vivevo lì, mentre mia moglie doveva ricavare il suo guadagno facendo la cresta sulla spesa, naturalmente a scapito dei ragazzi. I piatti erano africani, come lei.
Quando iniziammmo a mettere i puntini sulle i su quello che succedeva nel centro cercarono subito di farci le scarpe in tutti i modi, purchè ce ne andassimo via e potessero continuare a rubare. Gaston arrivò addirittura a sobillare i ragazzi contro mia moglie tanto che dovetti lasciarla a casa. Poco prima un altro dipendente aveva cercato di investire mia moglie con un bue tanto che ha ancora la cicatrice sulle ginocchia per la caduta. Il responsabile Gabriele quando tornò preferì che continuassero a rubare altrimenti il centro andava chiuso. Poi ritornò definitivamente in Italia. Prima di lui c'era stato un altro italiano, per tanti anni, che non aveva lasciato un buon ricordo di sè, ma che continuava a venire promettendo nuovi soldi dai progetti italiani.
Non so se il centro Abele c'è ancora a Grand Bassam. Forse sì. Perchè questa è un'onlus all'africana.
domenica 3 febbraio 2008
La mia Africa/7. Diplomazia all'italiana
Siete mai stata in un'ambasciata italiana all'estero, soprattutto nelle sedi cosiddette disagiate? Io ho avuto esperienza di quella di Abidjan, in Costa d'Avorio, dal 1994 al 2000, periodo in cui ero ufficialmente un italiano all'estero (Aire). Spero che in questi otto anni la situazione diplomatica italiana sia migliorata perchè quella che ho trovato io era disastrosa.
Dall'ambasciata italiana, infatti, se ti trovi in un guaio serio, non avrai mai un vero aiuto, a parte una festa all'anno per ingozzarsi di parmigiano e parlare male del Paese dove si lavora. Per non parlare della famosa unità di crisi della Farnesina che comunica cosa trite e ritrite, piene di luoghi comuni, che non servono a nulla se non a far pigliare lo stipendio a chi sta a Roma.
In genere, tranne qualche piccola eccezione, gli stessi impiegati che lavorano all'estero, compresi consoli e segretari, sono impreparatissimi e non si capisce quali concorsi abbiano mai vinto: non conoscono bene la lingua del posto in cui si trovano ma, come nel mio caso, solo un francese maccheronico come l'inglese del sito della Bella Italia di Rutelli, non conoscono il posto dove vengono a lavorare e non escono per conoscerlo, trattano la popolazione come animali e senza nessun rispetto, giudicano - quasi sempre male - tutti gli italiani che si avvicinano a loro, mettendo per iscritto i loro commenti e le loro vicende personali, quasi fosse una schedatura. L'ambasciatore, in genere, è preso dalle feste e dagli incontri ufficiali, ma solo ad altissimo livello. Ecco anche perchè ci sono così tanti clandestini che cercano di entrare in Italia e tanti italiani all'estero che dall'ambasciata si tengono ben lontani. Ecco qui di seguito qualche esempio personale.
Quando sono tornato in Italia, nel 2000, non c'è stato verso di portare con me la sorella di mia moglie e un bambino che viveva con noi come fosse il nostro figlio maggiore. Ancora oggi non sono riuscito a farli venire perchè non gli danno il visto di entrata. Se un persona locale, poi, nella sua semplicità, chiede un visto, dopo settimane di viaggio dal suo villaggio, deve far code interminabili allo sportello del consolato dell'ambasciata italiana per farsi dire che, siccome non ha il conto in banca, non ha un lavoro in Italia e non ha il biglietto per l'aereo non può andare da nessuna parte. Infatti, il visto ce lo hanno solo i più furbi, che pagano qua e là, o chi si avventura sulle tratte clandestine. Gli altri se ne tornano al villaggio.
Ma quello che più mi ha colpito è il modo con cui vengono trattate queste persone, praticamente come degli animali.
Eppoi mai trovarsi in difficoltà in uno di questi Paesi del mondo che di disagiato hanno poco o niente, ma che comunque fa guadagnare a questi signori anche diecimila euro al mese, senza nessuna spesa e vivendo in ville faraoniche. Sei subito guardato come uno scocciatore, uno che vive di espedienti, uno che al massimo gli si può pagare un biglietto aereo per rientrare lasciando moglie e figli lì sul posto. Perchè loro, i non italiani, non sono esseri umani, sono un'altra cosa, un incrocio tra un animale e una cosa.
Diplomazia all'italiana, insomma. Diplomazia dell'ignoranza, dell'approssimazione e dell'arroganza.
La mia Africa/6. Giornalismo all'italiana
Il giornalismo italiano fa ridere. Quello fatto in Africa dai nostri media è pura disinformazione. Quando scoppia una guerra civile in qualche Paese del Continente nero, tipo il Kenya e il Ciad per esempio, i grandi quotidiani, periodici e tv nostrani di cosa s'interessano? Non di quello che succede davvero alla gente di quel posto. No, questo non interessa a nessuno. Parlano di quanti italiani sono stati tratti in salvo, se c'è pericolo per i turisti italiani, se ci sono missionari e così via blaterando. Cioè parlano di un centinaio di persone privilegiate, di cui a nessuno importa nel Paese dove si sono stabiliti, rispetto ai milioni che stanno soffrendo e le migliaia che stanno morendo, spesso anche per nostre responsablità. Qui di seguito vi racconto una mia esperienza personale di quando vivevo in Costa d'Avorio, pochi anni fa.
Nel 1995 mi trovavo a Grand Bassam, a pochi chilometri dalla capitale amministrativa Abidjan, dove mi ero stabilito e insieme a mia moglie gestivo un ristorantino, il "Balafon". Una sera il lettore dell'Ambasciata italiana di Abidjan, tale Enzo (che naturalmente al suo rientro il Italia scrisse il suo bel libricino sulle usanze del posto, stile superficial-Veltroni, cioè senza aver capito una mazza di niente di quello di cui stava parlando), venne a trovarmi insieme all'inviato esperto dell'Africa di uno dei maggiori quotidiani nazionali, tale Massimo. Chi meglio di me, giornalista e stanziale, conoscitore della Liberia, poteva aiutare un povero inviato di un grande quotidiano italiano ad arrivare nella capitale liberiana Monrovia in tempo di guerra cvile, non per verificare i morti ammazzati, ma per fare un'intervista ad una coppia di avventurieri italiani che era rimasta incastrata negli scontri interetnici e per fare un reseconto ai tifosi del calcio italiani di quanto i liberiani dessero importanza al giocatore del Milan, Weah, che forse in futuro sarebbe sceso in politica nel suo Paese di origine.
L'inviato speciale venne con una collaboratrice italiana, altra "esperta" dell'Africa mordi e fuggi, con la quale condivideva la sua suite di lusso nel più prestigioso albergo di Abidjan, naturalmente tutto a spese del giornale per cui lavorava. Mangiò al mio ristorantino, pagò il conto con 60 dollari per lui e la sua amichetta e discutemmo del più e del meno e di come potesse entrare in Liberia con una situazione di guerra civile.
Gli spiegai che se era veramente interessato potevo accompagnarlo io perchè già c'ero stato tre volte, prendendo tutte le dovute precauzioni. Mi disse che ci avrebbe pensato ma che preferiva muoversi solo con gli americani che era più sicuro. Gli dissi che così non sarebbe mai entrato a Monrovia perchè gli americani e i caschi blu erano intrappolati in un quartiere della capitale liberiana, il Mamba Point, e che da lì non si potevano muovere e nemmeno raggiungere chicchessia.
Mi salutò e se ne andò. Poi seppi che gli articoli li aveva scritti dal lussuoso hotel ad Abidjan, in compagnia della sua amichetta collaboratrice esperta di Africa, e che a Monrovia non ci era mai andato. In Italia l'ho rincontrato e lo ho soprannominato "lo strappone".
Giornalismo all'italiana.
sabato 2 febbraio 2008
La mia Africa/5. Le strade per la Liberia
Siete mai stati in un Paese dove non esiste luce, acqua potabile, combustibile e derrate alimentari? Bastava andare in Liberia qualche anno fa, ai tempi della sanguinosa guerra civile voluta dall'ex presidente Charles Taylor, poi esiliato in Nigeria, prima che Weah rischiasse di divenire lui stesso presidente.
La Liberia è uno Stato artificiale voluto dai ricchi neri americani per tornare in maniera evoluta nella loro terra originaria. Ma è anche un territorio strategico per gli Usa per avere un piede in Africa. Un progetto che si è scontrato spesso con gli abitanti che già vivevano lì e che, in diversi periodi storici, ha portato a sanguinose diatribe all'africana.
Ai tempi del mio soggiorno in Costa d'Avorio, confinante proprio con la Liberia (subito dopo c'è la Sierra Leone e i due Paesi sono ricchi di diamanti), ci sono stato tre volte proprio ai tempi della guerra civile. In quel momento era una terra ormai in preda ai guerriglieri e e ai tristemente famosi soldati bambino.
La prima volta sono partito con un vizioso avventuriero italiano che dimorava a Grand Bassam in un intero albergo da lui affittato, un certo Aldo di Bari, che da 30 anni si spostava in Africa di Paese in Paese, soprattutto quelli in guerra o in procinto di fare la guerra, e si metteva a disposizione del guerrafondaio di turno per vendergli armi, suppellettili, aiuti e disponibilità di ogni tipo. Questa volta si era fatto amico Charles Taylor: lo aiutava a portare i soldi rubati fuori dalla Liberia e poi in Svizzera, arredava le case delle sue innumerevoli mogli e gli forniva quello che tutti gli negavano ufficialmente. Quando partii con questo signore ancora non sapevo con che tipo di personaggio avevo a che fare e lui, sapendo che ero un giornalista, mi propose di fare un filmato su Taylor e la Liberia, per riabilitare la sua figura a livello internazionale.
Il primi incontro con i guerriglieri liberiani fu con alcuni generali che venivano in Costa d'Avorio a godersi le loro ruberie e a vendersi i diamanti sottratti ai cercatori e che le compagnie occidentali e sudafricane ricercavano sottobanco. Per entrare in Liberia, infatti, c'era bisogno di copertura, perchè ormai. nel 1996, era terra di nessuno. Ottenuto una specie di lasciapassare e l'assicurazione che ci avrebbero scortato per attraversare illegalmente il fiume Cavally, al confine tra Costa d'Avorio e Liberia, partimmo con la Jeep di Aldo fino a San Pedro, secondo porto ivoriano famoso soprattutto per il trasporto di legna, dove pernottammo in un alberghetto tipico africano. Un primo viaggio era andato a vuoto ed avevamo dovuto tornare indietro, dopo ben 800 chilometri di viaggio. Questa seconda volta, invece, ci avventuranno su una chiatta sul fiume alle 4 del pomeriggio e attraversammo illegalmente la frontiera, tra coccodrilli e scimmie, scortati dai due pseudo generali di 30 anni e una trentina di ragazzi soldato armati alla bene e meglio. Dovevamo andare a vedere una piantagione di gomma che la Firestone aveva abbandonato per via della guerriglia, perchè il nostro amico avventuriero voleva trovare un compratore per lo stesso Taylor.
Arrivati sull'altra sponda del fiume, ci imbarcammo tutti su tre fuoristrada Toyota con ognuno una trentina di persone a bordo, non prima di aver convinto a suon di dollari americani i guerriglieri sul posto a farci andare. Attraverso delle piste con buche anche di 20 centimetri arrivammo ad un intero paese, con ferrovie e strutture della Firestone, ora completamente abbandonato, che prima produceva, tirandolo dagli alberi fino a farne un copertone, le famose gomme della società americana. Accatastate qua e là giacevano tonnellate di gomma abbandonata e bruciata dal sole africano. Aldo la guardò senza dire niente (se avesse detto che la merce non era buona rischiavamo di essere uccici!?!) e poi ci recammo in un città lì vicino, stile "Apocalypse now", dove non c'era più niente e giravamo solo gueriglieri armati. Donne e bambini si erano nascosti nella giungla. Tornammo in Costa d'Avorio a mezzanotte, stremati, riattraversando il fiume, sani e salvi comunque.
La seconda volta ci andammo con un aereo scassato che atterrò sulla pista di Monrovia, la capitale liberiana, in mezzo ad un vero e proprio mercato di polli. Alloggiammo all'Holiday Inn di un libanese, con la luce 4 ore al giorno gestita con un gruppo elettrogeno. Vedemmo il presidente Taylor non so per quali altri traffici sottobanco e contrattammo per l'acquisto di un grande albergo crivellato di proiettili, in attesa di una futura ricostruzione.
La terza volta andammo in macchina portando in dono a Taylor un camioncino acquisato all'ambasciata americana di Abidjan, da quegli stessi americani che Taylor combatteva a Monrovia, rintanati al Mamba Point, dove risiedavano insieme ad alcuni gruppi delle Nazioni Unite, con le jeep tutte nuove e in alloggi da cinque stelle. Facemmo un viaggio di 2.000 chilometri: io guidava la Jeep e lui il camioncino, insieme ad una ventina di guerriglieri. Le poche macchina che incrociavamo camminavano sul ferro delle ruote e le strade erano tutte piene di solchi. Con noi portammo anche il mio meccanico, che tremava come una foglia perchè pensava che l'avremmo lasciato lì dopo che mi aveva rubato circa 4.000 euro. Alloggiammo in un motel-fast food tenuto da uno svedese ed una liberiana, vicino ad un check point e in tempo di coprifuoco. Il mio amico Aldo oramai aveva capito che non avevamo più niente da dirci. Provò a lasciarmi marcire a Monrovia ma lo convinse a riportarmi indietro in Costa d'Avorio.
Fu l'ultima volta che misi piede in Liberia.
La Liberia è uno Stato artificiale voluto dai ricchi neri americani per tornare in maniera evoluta nella loro terra originaria. Ma è anche un territorio strategico per gli Usa per avere un piede in Africa. Un progetto che si è scontrato spesso con gli abitanti che già vivevano lì e che, in diversi periodi storici, ha portato a sanguinose diatribe all'africana.
Ai tempi del mio soggiorno in Costa d'Avorio, confinante proprio con la Liberia (subito dopo c'è la Sierra Leone e i due Paesi sono ricchi di diamanti), ci sono stato tre volte proprio ai tempi della guerra civile. In quel momento era una terra ormai in preda ai guerriglieri e e ai tristemente famosi soldati bambino.
La prima volta sono partito con un vizioso avventuriero italiano che dimorava a Grand Bassam in un intero albergo da lui affittato, un certo Aldo di Bari, che da 30 anni si spostava in Africa di Paese in Paese, soprattutto quelli in guerra o in procinto di fare la guerra, e si metteva a disposizione del guerrafondaio di turno per vendergli armi, suppellettili, aiuti e disponibilità di ogni tipo. Questa volta si era fatto amico Charles Taylor: lo aiutava a portare i soldi rubati fuori dalla Liberia e poi in Svizzera, arredava le case delle sue innumerevoli mogli e gli forniva quello che tutti gli negavano ufficialmente. Quando partii con questo signore ancora non sapevo con che tipo di personaggio avevo a che fare e lui, sapendo che ero un giornalista, mi propose di fare un filmato su Taylor e la Liberia, per riabilitare la sua figura a livello internazionale.
Il primi incontro con i guerriglieri liberiani fu con alcuni generali che venivano in Costa d'Avorio a godersi le loro ruberie e a vendersi i diamanti sottratti ai cercatori e che le compagnie occidentali e sudafricane ricercavano sottobanco. Per entrare in Liberia, infatti, c'era bisogno di copertura, perchè ormai. nel 1996, era terra di nessuno. Ottenuto una specie di lasciapassare e l'assicurazione che ci avrebbero scortato per attraversare illegalmente il fiume Cavally, al confine tra Costa d'Avorio e Liberia, partimmo con la Jeep di Aldo fino a San Pedro, secondo porto ivoriano famoso soprattutto per il trasporto di legna, dove pernottammo in un alberghetto tipico africano. Un primo viaggio era andato a vuoto ed avevamo dovuto tornare indietro, dopo ben 800 chilometri di viaggio. Questa seconda volta, invece, ci avventuranno su una chiatta sul fiume alle 4 del pomeriggio e attraversammo illegalmente la frontiera, tra coccodrilli e scimmie, scortati dai due pseudo generali di 30 anni e una trentina di ragazzi soldato armati alla bene e meglio. Dovevamo andare a vedere una piantagione di gomma che la Firestone aveva abbandonato per via della guerriglia, perchè il nostro amico avventuriero voleva trovare un compratore per lo stesso Taylor.
Arrivati sull'altra sponda del fiume, ci imbarcammo tutti su tre fuoristrada Toyota con ognuno una trentina di persone a bordo, non prima di aver convinto a suon di dollari americani i guerriglieri sul posto a farci andare. Attraverso delle piste con buche anche di 20 centimetri arrivammo ad un intero paese, con ferrovie e strutture della Firestone, ora completamente abbandonato, che prima produceva, tirandolo dagli alberi fino a farne un copertone, le famose gomme della società americana. Accatastate qua e là giacevano tonnellate di gomma abbandonata e bruciata dal sole africano. Aldo la guardò senza dire niente (se avesse detto che la merce non era buona rischiavamo di essere uccici!?!) e poi ci recammo in un città lì vicino, stile "Apocalypse now", dove non c'era più niente e giravamo solo gueriglieri armati. Donne e bambini si erano nascosti nella giungla. Tornammo in Costa d'Avorio a mezzanotte, stremati, riattraversando il fiume, sani e salvi comunque.
La seconda volta ci andammo con un aereo scassato che atterrò sulla pista di Monrovia, la capitale liberiana, in mezzo ad un vero e proprio mercato di polli. Alloggiammo all'Holiday Inn di un libanese, con la luce 4 ore al giorno gestita con un gruppo elettrogeno. Vedemmo il presidente Taylor non so per quali altri traffici sottobanco e contrattammo per l'acquisto di un grande albergo crivellato di proiettili, in attesa di una futura ricostruzione.
La terza volta andammo in macchina portando in dono a Taylor un camioncino acquisato all'ambasciata americana di Abidjan, da quegli stessi americani che Taylor combatteva a Monrovia, rintanati al Mamba Point, dove risiedavano insieme ad alcuni gruppi delle Nazioni Unite, con le jeep tutte nuove e in alloggi da cinque stelle. Facemmo un viaggio di 2.000 chilometri: io guidava la Jeep e lui il camioncino, insieme ad una ventina di guerriglieri. Le poche macchina che incrociavamo camminavano sul ferro delle ruote e le strade erano tutte piene di solchi. Con noi portammo anche il mio meccanico, che tremava come una foglia perchè pensava che l'avremmo lasciato lì dopo che mi aveva rubato circa 4.000 euro. Alloggiammo in un motel-fast food tenuto da uno svedese ed una liberiana, vicino ad un check point e in tempo di coprifuoco. Il mio amico Aldo oramai aveva capito che non avevamo più niente da dirci. Provò a lasciarmi marcire a Monrovia ma lo convinse a riportarmi indietro in Costa d'Avorio.
Fu l'ultima volta che misi piede in Liberia.
La mia Africa/4. Matrimonio all'ivoriana.
Il 28 dicembre del 1995, alle 18, mi sono sposato con Christine all'Hotel de Ville di Abidjan. Una cerimonia privata in Comune, alla presenza di una donna sindaco, il mio testimone ed ex amico Nando, e la sua testimone, Marie. Abbiamo evitato il tradizionale matrimonio africano e anche quello italiano. La sera siamo andati a mangiare sulla spiaggia di Grand Bassam, a 30 km dalla capitale ivoriana, dove vivevamo insieme da più di un anno e dove gestivamo due nostri ristoranti, ed è finita lì. Mio moglie era già incinta del nostro primo figlio, Francesco, che sarebbe nato il 12 luglio 1996. Altri due, Roberto e Riccardo, sarebbero nati l'8 febbraio 1999 e il 1 maggio del 2000.Ci eravamo incontrati il secondo giorno dopo il mio arrivo in Costa d'Avorio. Io avevo 39 anni, ero single ed avevo preso in affitto una villetta tra la laguna e il mare. Avevo deciso di lasciare l'Italia e di vivere a Grand Bassam. Lei aveva 20 anni, aveva appena perso la mamma ed era nella stessa cittadina dove lavorava in un piccolo ristorantino. Ci incontrammo al "Balafon", un maquis tipico locale ivoriano dove si mangia, si beve e c'è sempre musica. Lei lo voleva gestire per avere una sua attività e io volevo affittarlo come primo business sul luogo. Da quel giorno, fino ad oggi, non ci siamo più lasciati. Notti di passione i primi mesi, calore familiare che si trasforma poi nel tempo.I primi mesi li passammo ad organizzare il maquis: a comprare le suppellettili, ad imparare dove fare la spesa spendendo meno, ad ingaggiare cuoche e camerieri. Imparammo a comprare il pesce al mercato del porto di Abidjan e a prenotare i polli negli allevamenti all'interno. Poi ci fu l'inaugurazione. Mia moglie trascorreve quasi tutto il giorno al ristorante mentre io mi occupavo dei conti e della società di import-export che stavo mettendo su.Nel tempo libero ce ne andavamo sulla spiaggia da amici ristoratori e a fare qualche giro qua e là. Un anno dopo prendemmo uno stabilimento a 10 km da Grand Basam, su una pista tra la laguna e il mare, e ci facemmo un ristorante italiano dal nome "Il Riflesso". Aprivamo solo il sabato e la domenica ed era frequentato per lo più da italiani, da qualche libanese e da pochi locali. Così passammo quasi quattro anni, fino a quando tre banditi non fecero irruzione nella nostra casa e lo spettro della guerra civile fece capolino nel terzo Paese africano più sviluppato. Fu l'inizio di un cambiamento che ci fece poi decidere di venire ad abitare in Italia.
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