Il viaggio da Abidjan era iniziato al quartiere Treichville nel gennaio del 1998. Con un bus noleggiato qualche giorno prima dovevo recarmi ad Accra, la capitale del Ghana, per poi continuare verso Lomé, capitale del Togo. fino a Cotonou, nel Benin.
Dopo i primi 300 km arrivammo alla frontiera con il Ghana, un ponte che si reggeva per miracolo che univa i due Stati. Il rito del controllo dei passaporti e dei visti durò una mezza giornata. Nel frattempo si oziava all'ombra di enormi alberi fromagères per ripararsi da un sole cocente o si girava per l'enorme mercato al di là del ponte. In Ghana le cose costavano meno che in Costa d'Avorio. Tutti speravano di terminare le formalità di frontiera prima dell'imbrunire, altrimenti ci aspettava una notte all'addiaccio.
Arrivammo ad Accra a notte inoltrata, dopo altri mille chilometri di strada tutte buche e spaventosi incroci con i camion che venivano dall'altra parte. Io alloggiai al Kind David Hotel, un modesto alberghetto al centro della città di proprietà di un ricco ebreo del posto, dove già avevo dormito in altre occasioni. La luce mancava in alcune ore del giorno e delle notte perchè la produzione non era sufficiente per illuminare il Paese tutte le 24 ore. Nei giorni successivi feci diverse escursioni all'interno del Paese con taxi improvvisati. Conobbi la terra degli Ashanti e la dignità di un popolo che stava trovando una strada con le proprie gambe. Vidi i porti fortificati dove i colonizzatori europei avevano portato via decine di migliaia di famiglie riducendole in schiavitù negli Stati Uniti. Conobbi la residenza del due volte illuminato presidente Rawlings, figlio di uno scozzese e di una ghanese, che da generale per ben due volte aveva ripreso il potere e poi lasciato di sua volontà. Ci restai un mesetto.
Poi in aereo arrivai in Benin perchè era impossibile arrivarci via terra. Tra il Ghana e il Togo infatti, le frontiere erano in continua guerriglia e si rischiava la pelle. Dalla capitale Cotonou mi recai a Ganviè, la tipica città sulle palafitte nella patria dove era nato il voodoo.
Poi, con un taxi brousse-peugeot 9 posti arrivai in Togo, in quello che una volta, prima dell'arrivo del dittatore Eyadema, era considerata la svizzera africana.
Il taxi brousse è una vecchia peugeot 504, familiare, di solito di colore bianco, che viene usata in quasi tutti i Paesi africani, soprattutto francofoni, per trasportare le persone ad un prezzo abbordabile per la popolazione locale tra una cittadina e l'altra, (gli sgangherati taxi, invece, girano solo in città a cifre irrisorie, a meno di non concordare un'uscita con gli allampanati guidatori pieni di caffé). Oltre all'autista, il taxi brousse può portare otto persone (due davanti, tre dietro e altre tre in fondo), più un enorma quantità di bagagli. In genere è sovraccarico e si regge per miracolo, ma è facilmente riparabile e si trovano facilmente i pezzi di ricambio anche nei villaggi più sperduti. Sono praticamente delle macchine indistruttibili con cui si può girare tutta l'Africa, anche se a volte ci si ferma una giornata per fare una delle innumerevoli riparazioni on the road. Viaggiare con questi mezzi è un metodo unico per conoscere le persone del luogo, dei posti insospettati, scambiare qualche chiacchera, condividere i loro usi e costumi. Gli odori sono forti e i colori vivacissimi. Un'esperienza indimenticabile e nessun pericolo. Gli africani sono persone miti ed amichevoli e, soprattutto con i non africani, a differenze di noi "bianchi", sono più che ospitali.
Il Togo, comunque, non era sicuro e nella notte si sentivano sventagliate di mitra e si vedevano girare piccole carri armati intorno alla residenza del presidente, proprio accanto allo sfarzoso hotel "Benin City" dove alloggiavo. Nella notte presi un altro taxi brousse e me ne tornai, dopo altre dieci ore di viaggio su piste e asfalto pieno di buche, a Cotonou. Da lì, dopo aver sonnecchiato all'aeroporto ancora chiuso, ripresi un aereo sgangherato e me ne tornai in Costa d'Avorio, dove vivevo già da qualche anno.
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