Perché in Italia non siamo capaci di fare quello che è successo in Egitto e in Tunisia. Cioè, cacciare chi si è impossessato della nostra democrazia, della nostra libertà, delle stesse parole che le rappresentano. Si dirà che laggiù le cose stanno molto peggio che da noi e che la popolazione era alla fame. Ma perché dobbiamo arrivare a raschiare il fondo del barile per cacciare via chi sta portando l'Italia alla rovina e la sta ridicolizzando agli occhi del mondo. Anche da noi ci vuole una vera rivoluzione, che dia spazio ai giovani, che allontani per sempre la partitocrazia, che insegni e trasmetta valori, che dia un futuro a noi e nostri figli, che ci ridia una dignità ormai in mano a dei mestatori di professione. Scendiamo in piazza, alziamo le nostre barriccate, cacciamoli via Comune per Comune, finché non si respiri un'aria nuova degna della nostra storia e della nostra cultura.
"Perché in Italia non c'è la rivoluzione? O anche solo un suo timido accenno? E perché non c'è mai stata? I fuochi si stanno accendendo un po' ovunque, dall'Albania, alla Tunisia, all'Egitto. Vecchi dittatori hanno fatto le valige, come Ben Alì, o le stanno preparando, come il faraone Mubarak. L'Italia con il suo stivale immobile al centro del Mediterraneo sembra un castello pietrificato. Un coniglio ipnotizzato dal serpente. Una rana che viene lentamente bollita viva senza accorgersene. Le ragioni di tutto questo sono misteriose, appartengono al campo della metafisica, non più a quello della politica.La nostra stabilità (immobilità?) assomiglia a quella di chi, cadendo nelle sabbie mobili, chiude gli occhi ed evita il più piccolo movimento per rallentare la sua fine. Non grida aiuto, non cerca appigli, semplicemente affonda. I motivi per spiegare questo comportamento ci sono. Così numerosi da riempire un'enciclopedia: l'invecchiamento della popolazione (gran parte degli italiani dovrebbe scendere in piazza con le badanti), la massoneria, le mafie, l'informazione sotto controllo e pilotata (sia a destra che a sinistra), l'occupazione americana con le sue cento basi, il Vaticano, la mancanza assoluta di una classe dirigente... Queste e altre ragioni non sono però sufficienti per giustificare l'indifferenza degli italiani che, anche quando si scagliano contro il potere, evitano di varcare l'ultima linea, di prendersi dei rischi. Più cani da pagliaio che ascoltano il proprio abbaiare alla luna, e se compiacciono, che rivoluzionari. Cosa manca perché gli italiani prendano il loro destino nelle mani? Il popolo più cinico della Terra, abituato a tutto da millenni, che non crede veramente a nulla. La realtà ci dà fastidio, per questo la evitiamo. E domani, come sempre, è un altro giorno". (Dal blog di Beppe Grillo)
"Gli italiani, gli intellettuali, gli artisti, sono poco coraggiosi? Sì, lo sono sempre stati. Sono stati vent’anni sotto un governo fascista, ridicolo, con un pagliaccio che stava lassù... Ci ha mandato l’Impero, le falangi romane lungo Via dell’Impero; ha fatto le guerre coloniali, ci ha mandato in guerra... il grande imprenditore ha detto: «Lasciatemi governare, votatemi, perché io mi sono fatto da solo, sono un lavoratore, sono diventato miliardario, vi farò diventare tutti milionari». Ormai nessuno si dimette, tutti pronti a chinare il capo pur di mantenere il posto, di guadagnare. Pronti a sopraffarci, a intrallazzare. Non c’è nessuna dignità. E’ la generazione che è corrotta, malata, che va spazzata via. La speranza è una trappola inventata dai padroni, quelli che ti dicono "State buoni, zitti, pregate, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà... sì, siete dei precari, ma fra 2-3 mesi vi assumiamo ancora, vi daremo un posto". Come finisce questo film? Non lo so, spero che finisca con quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una bella rivoluzione. C’è stata in Inghilterra, in Francia, in Russia, in Germania, dappertutto meno che in Italia. Ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto... che è schiavo di tutti. Se vuole riscattarsi, il riscatto non è una cosa semplice. E’ doloroso, esige dei sacrifici. Se no, vada alla malora – che è dove sta andando, ormai da tre generazioni". (Mario Monicelli)
"Pochi giorni fa un’intervistatrice tv mi ha chiesto cosa credevo potesse pensare della politica italiana un alieno proveniente da un altro pianeta, un extraterrestre che improvvisamente si fosse trovato a Roma. Una bella domanda, anche se mi sono chiesto se lei vedeva anche me come una sorta di alieno. Forse come commentatore straniero sono davvero una specie di extraterrestre, ma vorrei rilanciare: di fronte alla politica italiana oggi siamo tutti alieni, rispetto ai politici siamo tutti creature di un altro pianeta, italiani o stranieri, giovani o vecchi, di destra o di sinistra. Perciò la mia risposta è che il nostro extraterrestre chiederebbe come mai in Italia c’è così tanta politica e così poco governo. Infatti, se l’Italia fosse l’unico Paese sulla Terra visitato dall’alieno, la creatura dovrebbe concludere che in questo gioco chiamato democrazia la politica e il governo devono essere variabili indipendenti, attività non connesse, e potrebbe dedurne che in Italia il vero governo deve essere altrove, probabilmente in qualche luogo segreto, perché nessuno dei politici sembra avere nulla a che fare con esso.
Ciò che i media internazionali rispecchiano oggi, in realtà, è l’idea, affine ma più limitata, che il grande successo di Silvio Berlusconi, in effetti la vera eredità dei suoi anni a Palazzo Chigi, sia aver finalmente sostituito come cliché favorito tra gli stranieri per l’Italia «La Dolce Vita» con la frase «Bunga Bunga». Tuttavia il danno, come ben comprende il nostro alieno, è molto più grave della semplice sostituzione di una bella immagine cinematografica con uno scollacciato esotismo.
Il danno può essere riassunto adattando la famosa frase detta da Henry Kissinger, quando l’allora segretario di Stato Usa chiese a chi avrebbe dovuto telefonare se avesse voluto parlare con l’Europa. Se si fosse riferito all’Italia di oggi, avrebbe detto che il numero lo conosce, ma nessuno risponde al telefono. Non ha senso, pensano i governi stranieri o le imprese, chiamare l’Italia, perché il governo, e forse ogni iniziativa, non esiste più. I politici, almeno tutti i politici nazionali, si sono lasciati alle spalle il mondo reale. «Povera Italia», come ha detto recentemente il mio ex datore di lavoro, The Economist. La rivista fu anche rimproverata nel 2001, quando descrivemmo Silvio Berlusconi come «inadatto a guidare l’Italia», ma non ci rendevamo conto che la parola cruciale non era solo «inadatto», ma anche «guidare». Né lui né nessun altro nella politica italiana mostra alcun interesse a guidare l’Italia.
Naturalmente gli italiani hanno percepito questo per qualche tempo. Milioni di voi hanno fatto de «La casta» di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo un grande bestseller nel 2007, un fenomeno che in qualsiasi altro Paese avrebbe implicato la presenza di una forza irresistibile per il cambiamento. Ma la politica è proseguita come prima. Solo, peggio.
Che dire dell’economia? Gli analisti hanno speso un sacco di tempo l’anno scorso chiedendosi in cosa l’Italia è diversa dalla Grecia, dall’Irlanda e dal Portogallo, dato che il suo debito pubblico è uno dei più grandi d’Europa in rapporto al Pil. La conclusione popolare, soprattutto con Giulio Tremonti, è che l’Italia è diversa perché non soffre di crisi del settore finanziario, ha un deficit di bilancio relativamente modesto ed è ancora in grado di onorare i debiti, nonostante un tasso di crescita lento. Quindi questa è una buona notizia.
È tempo di convincersi del contrario. Infatti, sebbene l’analisi sia corretta, la conclusione è errata: in realtà, questa è una cattiva notizia. Perché almeno i governi di Grecia, Irlanda e Portogallo stanno facendo qualcosa sotto la pressione della loro crisi: le riforme sono state tentate. Almeno in Irlanda c’è un’opposizione che sa chi è il suo leader e sa che vuole andare al governo alle elezioni anticipate che si terranno il mese prossimo.
Così come ad altri commentatori mi viene spesso chiesto come possa il presidente del Consiglio sopravvivere a scandali che avrebbero costretto alle dimissioni in pochi giorni qualunque altro leader europeo. La ragione non ha veramente nulla a che fare con il sesso o machismo che viene spesso citato, ancora meno con l’opinione pubblica.
La differenza decisiva tra l’Italia e ciò che sarebbe accaduto in Francia, Spagna o Gran Bretagna è che gli alleati di Berlusconi, all’interno del suo partito e della sua coalizione, non gli hanno ancora chiesto di dimettersi, cosa che altrove i loro omologhi avrebbero già fatto da tempo. Essi non vedono alcuna necessità di farlo e presumibilmente credono di poter ancora trarre beneficio dall’alleanza con lui. Né l’opposizione appare seriamente intenzionata nel tentativo di costringerlo ad andarsene, o di cercare di convincere i suoi alleati, nel Pdl o nella Lega, che i loro interessi potrebbero essere serviti meglio senza di lui. Lo spettacolo piuttosto strano della legge sul federalismo fiscale e relativi dibattiti mettono in luce questa mancanza di urgenza e di determinazione. Dopo tanti anni di discussioni su questo problema, con il disegno di legge principale approvato da quasi due anni e con le scadenze per le leggi di attuazione presumibilmente imminenti com’è possibile che ci sia così poca chiarezza su ciò che davvero significa federalismo fiscale? Non sono solo gli alieni a non riuscire a decifrare il vero significato di questo cambiamento apparentemente così importante.
La domanda che devo continuare a pormi alla luce di questa scena politica triste, paralizzata, del tutto autoreferenziale, è se mi sbagliavo lo scorso ottobre esprimendo speranza e ottimismo nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi». Certamente non abbiamo ancora raggiunto il «dopo», ma la mancanza di leadership, o anche del desiderio di averne una, è scoraggiante.
Così, torniamo al nostro alieno e supponiamo che così come è extraterrestre sia anche un economista esperto. Se l’alieno desse un’occhiata ai dati economici dell’Italia, vedrebbe una lista familiare di punti deboli: la crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi della zona euro allargata, la caduta dei redditi delle famiglie; la crescita a rilento della produttività, l’invecchiamento e la stagnazione della popolazione, l’alta disoccupazione giovanile, i disavanzi del commercio della bilancia dei pagamenti, nonostante tutte le dicerie sulle esportazioni italiane (che, contrariamente alla credenza popolare, sono solo al quinto posto nell’Unione europea, sommando beni e servizi, o al quarto solo per le merci).
Ma incontrerebbe anche imprenditori che lavorano giorno e notte per creare e inventare prodotti di alta qualità venduti in tutto il mondo; vedrebbe, dal referendum Fiat, una volontà emergente tra i sindacati moderati e i lavoratori per modernizzare le pratiche del lavoro; vedrebbe le idee, l’energia e la creatività dei giovani e potrebbe essere impressionato dalla forza delle cooperative e delle reti nel lavorare insieme per obiettivi comuni. Soprattutto, noterebbe, nelle sue conversazioni con gli economisti italiani umani, un consenso insolito (per l’economia) su ciò che deve essere fatto.
Il manifesto dell’alieno sarebbe chiaro, insieme forse con la sua strategia di investimento: concluderebbe, come amano dire gli investitori, che in Italia l’«opportunità al rialzo» di una crescita economica più rapida, lungo le linee tedesche, è grande se solo ci potesse essere un accordo per liberare le energie del Paese. L’agenda richiede il passaggio a un diritto del lavoro unitario ma più flessibile; il trasferimento di risorse pubbliche dall’odierno pantano di usi improduttivi a un nuovo sistema di assicurazione contro la disoccupazione; la liberalizzazione dei mercati per i servizi e per le merci così da consentire maggiore concorrenza e innovazione e, per tutti, la riduzione dei costi. E ancora di più, naturalmente, compresa una versione molto più ambiziosa della riforma Gelmini, per trasformare le università in istituzioni di livello mondiale costrette a concentrarsi sugli studenti e sui risultati. Sarebbe un ordine del giorno liberale, non poi così diverso da quello che i leader e gli altri Paesi della zona euro chiederebbero se l’Italia dovesse in effetti trovarsi in una crisi del debito sovrano. Ecco perché una tale crisi non sarebbe una cosa negativa, nel caso dell’Italia.
Un’agenda del genere avrebbe bisogno di una leadership politica. In realtà avrebbe bisogno di politici interessati alla politica e al governo del Paese. Per il momento non lo sono. Eppure, come Hosni Mubarak, che non è lo zio di Ruby, sta imparando in Egitto, non si può contare per sempre sullo status quo". (Bill Emmot)
“Heyya fawda!, E’ caos!”. Questo il titolo dell’ultimo lungometraggio del regista egiziano Youssef Chahine che descriveva, nel 2007, lo stato caotico e ingovernabile al quale è giunto l’Egitto la cui vita civile è da decenni ostaggio degli umori degli ufficiali e dei commissariati di polizia.
Una “mafia” dentro il regime, che nessuno è mai riuscito a governare. Il protagonista del film, Hatem, un ufficiale di polizia, appunto, impone le sue voglie a tutti con la minaccia continua della galera e della tortura. Persino l’amore Hatem vorrebbe imporre alla bella Nur, la sola a non aver paura del boss della polizia. Ma Hatem non sa cosa vuol dire essere rifiutato e pensa che violentandola otterrà quell’amore che nessuno gli aveva mai dato e che lui aveva sempre intimamente desiderato… Profetico il titolo, profetica la trama del film di Chahine, malgrado non creda che il regista scomparso si sarebbe mai immaginato che in Egitto esplodesse un caos di tutt’altro tipo.
Un solo slogan, scandito in tre tempi: “Il popolo / vuole / il rovesciamento del regime”. Sono queste le parole che per il terzo giorno consecutivo risuonano, più di ogni altra, in ogni angolo del più importante Paese mediorientale, ago della bilancia degli equilibri nella regione. Forse pizzicati nel loro orgoglio dalle rivolte di questo “piccolo”, relativamente periferico, paese nordafricano, che è la Tunisia - a cui non si può negare il merito di aver aperto una nuova pagina nella storia di questa regione - gli egiziani hanno deciso di sfogare la rabbia repressa e di rompere un silenzio che è durato perlomeno 30 anni, tanti quanti sono gli anni di governo che il presidente Mubarak avrebbe compiuto il 14 ottobre di quest’anno.
Quello che succede ora in Egitto è il regalo di compleanno che il popolo egiziano ha riservato al suo raìs ultraottantenne e malato e a un regime, altrettanto malato, che ha raggiunto livelli indescrivibili di corruzione e di malgoverno. Un regime che ha spaccato il paese tra pochi ricchissimi pescecani, ammanicati con le alte sfere, e un mare di poveri e bisognosi, a cui mancano i più elementari diritti a una vita che possa definirsi decente: né panem né circenses.
Nulla di nulla.
Un regime che ha svenduto il proprio territorio al miglior offerente (spesso straniero). Uno stato di polizia che non è riuscito a proteggere la sua popolazione, e in particolare inermi fedeli copti, da ben due attentati terroristici nell’arco di un solo anno (7 gennaio 2010/1 gennaio 2011). Un regime che ha fatto dei commissariati di polizia tribunali per processi sommari e centri di tortura legalizzati grazie alla Legge di Emergenza in vigore dal 1967 (fu sospesa solo per circa un anno nel 1980 e ripristinata da Mubarak dopo l’assassinio di Sadat), una legge che dà carta bianca al presidente di congelare la “normale” vita del Paese imponendo coprifuoco, arresti di massa per semplice sospetto (come accade anche oggi), invalidando o modificando sentenze di tribunali della Repubblica. La Legge di Emergenza ha sempre permesso la violazione dei più elementari diritti umani dei cittadini egiziani che rischiano maltrattamenti e torture nelle centrali di polizia, l’arresto immotivato, l’isolamento dal mondo per lunghi periodi. Fatti quotidiani, questi, conosciuti da tutti, e raccontati anche dalla letteratura e dal cinema egiziano (famosi in patria sono il romanzo di Nagib Mahfuz ‘Karnak’ e il film ‘Siamo quelli dell’autobus’ sulla falsificazione delle accuse da parte della polizia per scopi carrieristici).
Le manifestazioni: giovani e plurali
Nessuno, nemmeno gli egiziani più ottimisti, si sarebbero mai immaginati che un giorno la gente avrebbe detto basta a tutto questo e con tali devastanti proporzione.
Vengono in mente tante immagini: l’intifada palestinese, la rivoluzione rumena, la rivoluzione di velluto cecoslovacca, l’Iran. Ma credo che quello che colpisca sia l’unità che gli egiziani stanno dimostrando in queste manifestazioni. Da tempo immemore non si vedevano insieme musulmani e cristiani, fondamentalisti e laicisti, classe media e operai. E’ esattamente dalla rivoluzione del 1919 contro gli inglesi (sono passati quasi cent’anni!) che non si vedevano manifestazioni che accomunassero uomini e donne, studenti, impiegati, commercianti, contadini, operai. Ma soprattutto giovani.
Questa sarà ricordata come la rivoluzione dei giovani. Giovani di tutte le classi sociali. La grande maggioranza dei manifestanti è composta dai giovani della classe media che sono nati e cresciuti con la faccia e la voce di Mubarak in televisione. Per la gran parte disoccupati, oppure occupati con stipendi da fame,. disillusi, senza un orizzonte, in un Paese in mano a vecchi, sono stati i giovani a organizzare la prima manifestazione del 25 gennaio su Facebook. Questa sarà anche ricordata come la rivoluzione di Facebook che qualcuno ha già rinominato “Sawrabook”, il libro della rivoluzione.
E mentre i primi timidi gruppetti di giovani scendevano in piazza al Cairo (Le Monde parlava di 15000 manifestanti contro 30000 poliziotti in assetto antisommossa!), verso le 12 di martedì scorso, su Facebook veniva lanciata la Rete RASD, quello che potremmo definire “l’osservatorio della rivoluzione” (rasd in arabo significa, infatti, “monitoraggio”) che trasmetteva notizie fresche e in diretta dalla piazza, minuto dopo minuto, grazie all’uso della rete e dei cellulari.
Un tentativo ben riuscito di informazione libera e popolare dal momento che, a mano a mano che le manifestazioni si ingrandivano e si diffondevano in tutto il Paese, i giornalisti di RASD sono riusciti a dare conto di tutte le novità grazie a una rete ben congegnata di corrispondenti e informatori sparsa ovunque. Uno dopo l’altro, in assenza di importanti coperture mediatiche (Aljazeera era in ritardo e la televisione egiziana trasmetteva… film in bianco e nero!), al gruppo RASD si sono iscritti, in soli tre giorni di vita, quasi 400mila utenti Facebook da dentro e fuori l’Egitto.
Un grande successo di informazione dal basso che forse è stato oscurato dal blocco di internet imposto dal regime ieri e oggi. Il governo ha capito, troppo tardi, la pericolosità di Facebook e della rete in generale. Così è corso ai ripari e ha causato il primo black-out totale di internet. Non solo internet è stato oscurato ma anche tutti i servizi della rete di telefonia mobile sono stati. Quello a cui non era giunto l’Iran nei mesi scorsi, è stato realizzato dal regime “moderato” del Cairo. Ma questo non ha paralizzato le manifestazioni come ci si aspettava. Semmai le ha incoraggiate.
Da nord a sud, da est a ovest. Il caso di Suez.
Gli ultimi due giorni hanno segnato la svolta di queste manifestazioni che, all’inizio, non facevano ben sperare. A quel timido gruppo di 15000 persone circoscritto alla capitale, si sono aggiunte ben presto altre decine di migliaia di manifestanti in tutti i maggiori quartieri del Cairo. Non solo. Suez e Alessandria, due delle più importanti città del Paese, si sono unite alle proteste mentre ieri si è segnato il climax dei primi tre giorni: Damietta, Damanhur, Mansura, Zagagig, Tanta, Kafr el Dwwar e altri piccoli villaggi nel Delta, nel nord del Paese; Rafah, El-Arish e altri villaggi del Sinai (estrema regione orientale del Paese); Marsa Matruh, Sallum e altri villagi all’estremo ovest del Paese; Kom Ombo, Luxor, Hurghada e altri villaggi del sud dell’Egitto; molte città satelliti nella gigantesca periferia cairota (Heliopolis, Madinet Nasr, Rehab ecc.); Suez, Ismailiyya e Port Sa‘id le tre grandi città del Canale. Tutte hanno visto continue e violente proteste popolari. Dopo tutte queste manifestazioni che hanno messo a ferro e a fuoco l’intero Egitto anche la tv pubblica si è dovuta rendere conto che qualcosa di nuovo succedeva nel Paese. Ha quindi deciso di interrompere la trasmissione dei film degli anni Cinquanta, in attesa di tempi migliori.
Suez merita una menzione particolare. Questa piccola e coraggiosa città, da sempre obiettivo primario di ogni nemico militare dell’Egitto, è stata testimone di un’incredibile sollevazione popolare che ha imposto, sin dalla fine del primo giorno, il coprifuoco in tutto lo spazio comunale. Ciononostante, nessuno ha rispettato il coprifuoco e i sueziani hanno letteralmente dato alle fiamme e distrutto tutto quello che poteva essere legato al regime e ai suoi scagnozzi: la sede del partito Nazionaldemocratico (partito di Mubarak), la sede del comune, le questure e le proprietà dei businessmen pescecani amici del regime. Nella battaglia di Suez, i cittadini hanno fronteggiato la polizia, si sono impossessati delle armi e dei lacrimogeni dei poliziotti e hanno iniziato… a lanciare loro i loro stessi lacrimogeni! E’ stata talmente incontenibile la rabbia popolare a Suez che la polizia è stata costretta a ritirarsi dalle strade. Per ora Suez è stato il paese con il numero più alto di vittime: 13. Varrà la pena ricordare che Suez è una città, per tradizione, partigiana. Durante le guerre egiziane contro Israele (soprattutto 1967 e 1973) è stata sempre l’ammortizzatore resistente del Paese. L’ultima resistenza popolare di Suez, la più famosa, quella del 1973, fu guidata dallo shaykh Hafez Salama che oggi, alla veneranda età di quasi novant’anni (classe 1925), era in mezzo ai suoi concittadini.
Kefaya, Basta!
Il dato veramente nuovo e al di sopra di tutte le aspettative è che questo sommovimento popolare è spontaneo e plurale. In un paese come l’Egitto paralizzato per decenni anche per il rischio di un possibile golpe islamico, guidato dai Fratelli Musulmani, vedere questa pluralità di diverse classi sociali e di orientamenti politici, tutti uniti da un solo obiettivo, rovesciare il regime, lascia tutti esterrefatti. Stavolta i Fratelli Musulmani, forse anche nel timore di un possibile fallimento della rivoluzione (e della conseguente vendetta ai loro danni che il regime di Mubarak avrebbe potuto attuare), sono rimasti, sin dalle prime ore, nelle file retrostanti, senza esporsi più di tanto. Per una volta, non guidano queste grandi manifestazioni contro Mubarak ma si mescolano tra la folla. Per una volta, le manifestazioni organizzate da gruppi extra-parlamentari diversi dai Fratelli Musulmani coinvolgono centinaia di migliaia di persone allo stremo delle loro forze.
Questa presa di coscienza può esser fatta risalire alla nascita di Kefaya (Basta), un movimento popolare che nacque l’8 agosto 2004 con lo slogan “La lil-tamdid, La lil-tawrith” (No ad un altro mandato, No ad una repubblica ereditaria) e che diceva basta alla tirannia, alla corruzione, alla disgregazione, al sottosviluppo, all’ipocrisia, alla perdita di memoria, al pessimismo, alle parole senza i fatti (dal manifesto di Kefaya).
Quel giovane movimento “giallo” (dal colore prescelto per il proprio logo adesivo) della società civile, il 13 dicembre 2004, davanti alla Corte Suprema, urlò “No al potere ereditario, no alla riconferma di Mubarak”, “No a Mubarak, al suo partito e a suo figlio”. Era la prima volta. Nonostante Kefaya fosse stata capace di smuovere le acque stagnanti della politica egiziana rompendo il più grande tabù nazionale – manifestare in piazza apertamente contro il Presidente – il movimento è sempre restato limitato ad una stretta cerchia di intellettuali e attivisti politici. D’altronde un popolo escluso ed alienato dalla vita politica per decenni, doveva riprendere il proprio ruolo poco per volta.
Kefaya è un movimento senza una sua propria ideologia perché ingloba dentro di sé molte ideologie e orientamenti politico-sociali spesso in netto contrasto tra loro ma tutte accomunate dall’opposizione al regime: islamisti e socialisti, religiosi e laici. Malgrado la mancanza di un’ideologia, gli scopi apparivano definiti. Le richieste e gli intenti di Kefaya sono stati annunciati ufficialmente in un documento intitolato Documento alla nazione reso pubblico il 21 dicembre 2004.
Vi si leggeva:
«I personaggi della politica, del pensiero, della cultura, del sindacalismo e della società civile, firmatari di questo documento, si sono accordati nel riunirsi, malgrado le divergenze politiche e ideologiche, per affrontare due questioni legate tra loro ognuna delle quali è causa e risultato dell’altra.
Prima questione: i pericoli e le enormi sfide che circondano la nostra Nazione rappresentate dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Iraq, dalla continua violenza e aggressione sionista ai danni del popolo palestinese e dai progetti che mirano a ridisegnare la cartina della Nazione araba di cui ultimo il progetto del “Grande Medio Oriente”.
Tutto ciò minaccia la nostra identità nazionale. Per questo motivo si richiedono grandi sforzi per intavolare un confronto diretto a tutti i livelli - politico, culturale e civile - per salvaguardare gli arabi dal progetto sionamericano.
Seconda questione: la dittatura che ha colpito la nostra società è la causa principale nell’incapacità dell’Egitto di affrontare questi pericoli. Per questo motivo si necessita una riforma globale, politica e costituzionale, portata avanti dai cittadini e non imposta sotto qualsiasi denominazione.
Questa riforma deve toccare i seguenti punti:
1. la fine del monopolio del potere e apertura all’alternanza a partire dalla carica di presidente della repubblica;
2. la promozione della legge, l’indipendenza della magistratura, il rispetto per le sentenze, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge;
3. la fine del monopolio delle risorse che ha diffuso la corruzione e l’ingiustizia sociale aumentando la disoccupazione e i prezzi;
4. il ripristino del ruolo regionale dell’Egitto perso dopo gli accordi di Camp David con Israele.
Uscire da questa crisi richiede l’inizio rapido della fine del monopolio che il PND ha del potere; la cancellazione dello stato d’emergenza e di tutte le leggi eccezionali antilibertarie; una modifica costituzionale immediata che permetta l’elezione diretta del popolo del Presidente della Repubblica e del suo vice per non più di due mandati, che limiti i poteri assoluti del presidente, che realizzi la divisione e la limitazione dei poteri, che permetta la libera creazione di partiti, quotidiani ed associazioni, che liberi i sindacati della tutela governativa; lo svolgimento di elezioni parlamentari pulite e vere sotto il controllo del Consiglio superiore della Magistratura e il Consiglio di Stato dallo spoglio dei voti sino alla proclamazione dei risultati.
Questa è l’unica via per costruire un Paese libero che creda alla democrazia e al progresso e realizzi lo stato sociale sperato per il nostro popolo, nel nostro amato Egitto.»
Kefaya, oltre ad essere un movimento privo d’ideologia, appariva anche come movimento acefalo: molti capi, molti portavoce, molti rappresentanti.
Kefaya fu la scintilla. Sul suo modello nacquero, infatti, numerosi sottomovimenti: “Giornalisti per il cambiamento”, “Non leggere [i giornali governativi] per il cambiamento”, “Letterati per il cambiamento”, “Operai per il cambiamento”, “Medici per il cambiamento”, “Contadini per il cambiamento”, “Giovani per il cambiamento”, “Bambini per il cambiamento” (organizzazione nata per la scarcerazione di genitori arrestati per motivi politici) ecc.
Kefaya è restato per molti anni un movimento di élite. A partecipare costantemente alle attività del partito (manifestazioni, sit-in, dimostrazioni, congressi) è stata una minoranza composta soprattutto da intellettuali, politici indipendenti, giornalisti, scrittori, sindacalisti, studenti universitari. Kefaya non è riuscita a trascinare la massa degli egiziani che restava a guardare le manifestazioni davanti alla tv o alla finestra per paura di contrastare apertamente il regime.
E ora?
Come Kefaya, anche queste sommosse sono plurali e come Kefaya, anche questa rivoluzione sembra acefala. Manca infatti una leadership forte che possa guidare le proteste nelle loro fasi finali decisive.
Chi si metterà a capo della rivoluzione dei giovani? A cosa potrà portare la coesistenza di un gran numero di partiti e ideologie spesso in competizione tra loro quando sarà il momento di prendere le decisioni? Alla rottura o all’allargamento del fronte? E inoltre: qual è l’alternativa politica concreta che il movimento propone, come intende gestire una transizione, con quali quadri e in quanto tempo?
Il premio nobel ed ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, Muhammad El-Baradei, a cui manca la necessaria popolarità in Egitto, è ritornato ieri (28.1.2011) dall’estero e ha proposto di mettersi a capo di un governo provvisorio che porti il Paese a nuove elezioni presidenziali. Ma è stato subito messo in stato di fermo (poi agli arresti domiciliari) non appena sceso in piazza a manifestare dopo la preghiera del venerdì. Ayman Nur, un altro oppositore che è stato a lungo in carcere, è stato ferito dalla polizia e non sembra che abbia né la popolarità necessaria né le velleità di prendere il potere. Chi si metterà a capo dei comitati che si formeranno? Chi guiderà il consiglio nazionale che si creerà se la rivoluzione avrà successo? Il rischio che gli islamisti montino le rivolte rimane. Ma l’auspicio, di molti egiziani e non solo, è che nessuna ideologia politica o religiosa, in particolare, monopolizzi questi movimenti e che tale genuino movimento popolare rimanga plurale, democratico e aperto a tutte le proposte di riforma. Pluralità dovrebbe essere la parola chiave del prossimo Egitto.
“Non vi ho capito”
Nell’ultimo discorso di Ben Ali, il presidente tunisino, prima di scappare sul jet privato diretto a Gidda ha fatto un discorso alla televisione pubblica nel quale ripeteva al popolo, istericamente, “vi ho capito, vi ho capito”. Mubarak, dopo tre lunghi giorni di manifestazioni e proteste in ogni angolo del Paese, ieri sera tardi è apparso finalmente alla televisione di Stato e non ha dato agli egiziani nemmeno la soddisfazione di sentirsi dire “vi ho capito, vi ho capito”. “Non ci ha capito”, è probabilmente questo quello che hanno pensato tutti gli egiziani che hanno avuto il coraggio di ascoltare un discorso televisivo patetico e stantìo, sentito e risentito centinaia di volte negli ultimi anni che non ha portato a nulla di concreto (per un attimo ho avuto la sensazione che fosse il replay di un vecchio discorso…). In questo discorso (l’ultimo?) Mubarak ha offerto il meno del meno del minimo sindacale: la destituzione del governo.
Su Facebook il gruppo del giornale di opposizione El Dustur, pochi secondi dopo la fine del discorso presidenziale, ha scritto: “Mi sa che Mubarak non ha proprio capito: il popolo vuole il rovesciamento del regime!” Mentre RASD ha pubblicato: “Ben Ali ha detto ‘vi ho capito’. Ci vorranno altri 30 anni perché Mubarak capisca anche noi?”. Ma la battuta più bella è forse quella che circolava su Twitter: “Una volta ho comprato una macchina da Mubarak. Non funzionava. Così lui mi ha proposto di cambiare la radio”.
Il discorso di Mubarak è irresponsabile e non farà che innescare nuove e più violenti proteste. Tanto più che arriva dopo ben due conferenze stampa sulla questione Egitto tenute da due simboli del potere statunitense molto prima di Mubarak: il ministro degli Ester, Hillary Clinton e il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs (poco dopo Mubarak, ha anche parlato Barack Obama). Ciò che mi pare di aver capito da questi discorsi statunitensi è che, per ora, gli Usa non scaricano ancora l’amico mediorientale ma lo spronano a compiere urgentemente riforme concrete. L’appoggio è immutato ma cambiano le condizioni. Mubarak nel suo discorso fa l’occhiolino a Washington ed è all’amministrazione americana, e non al suo popolo, che dice: “Vi ho capito”.
Quello che non ha fatto l’aumento del prezzo del pane, quello che non ha fatto l’inquinamento dell’acqua potabile, quello che non hanno fatto le stragi dei copti e dei palestinesi, ha fatto Facebook. Il popolo egiziano, guidato dalle giovani generazioni, è da tre giorni barricato in piazza in tutto l’Egitto e non mollerà (“kharbana kharabana” si dice in dialetto egiziano, della seria “o ora o mai più”) se non quando si sarà riappropriato del proprio Paese per riformarlo alla radice e proporlo come nuovo modello per tutti gli altri paesi arabi i cui leader già tremano sulle poltrone per il ripetersi dello scenario egiziano.
L’Egitto ha già dimostrato che i fenomeni in queste regioni si replicano per imitazione. Bisogna solo attendere: a chi toccherà dopo? Uno scenario, quello egiziano, che se riuscirà a produrre un vero cambiamento ridisegnerà anche tutti gli equilibri nella regione. Uno scenario che ora, dopo trent’anni di staticità, appare estremamente dinamico e in continua evoluzione. Le analisi politiche dovranno tutte fare i conti con questa realtà multiforme, liquida, ancora inafferrabile, dalle conseguenze ancora incalcolabili.
Qualunque sarà la fine di questa epopea, qualunque saranno le scelte che verranno prese, qualunque sarà il prossimo regime egiziano, di una cosa possiamo essere certi: saremo testimoni di giorni, settimane e mesi che la storia sta già registrando. Lunga vita all’Egitto!" (Marco Hamam-Limes)
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