domenica 31 gennaio 2010
sabato 30 gennaio 2010
giovedì 28 gennaio 2010
mercoledì 27 gennaio 2010
martedì 26 gennaio 2010
lunedì 25 gennaio 2010
domenica 24 gennaio 2010
sabato 23 gennaio 2010
L'Italia rassegnata
"Mattino. Scendi le scale. Porti la spazzatura nei bidoni differenziati. In ognuno ci sono rifiuti di ogni tipo. Esci in strada. Le strisce pedonali occupate da un Suv. Lo aggiri. Attraversi. Fermata dell'autobus. Macchine parcheggiate sull'area di sosta del mezzo pubblico. 15 metri a destra per trovare un varco e salire. Un fumatore in attesa butta il pacchetto vuoto sul marciapiede. Nell'autobus rubano un portafoglio a una signora. Osservi, taci (e se avesse un coltello?). Attraversi una piazza. Cani che cagano su un prato riservato ai bambini. Semaforo rosso, in mezzo alla strada una buca. Un motociclista potrebbe ammazzarsi. Qualcuno avvertirà i vigili. Bar. Frasi nell'aria: "Berlusconi e la giustizia a orologeria", "Di Pietro terrorista". Perché discutere? Tossisci, l'aria è irrespirabile. Qualcuno ci penserà. Apri una busta della banca. Il tasso di interesse è ridotto allo 0,1%. Per il mutuo sull'appartamento il tasso è invariato al 9%. In ufficio non hanno rinnovato il contratto a venti colleghi a tempo determinato. I dirigenti sono al loro posto. Il Senato approva il processo breve. Napolitano scrive una lettera alla vedova Craxi: "Pagò con durezza senza eguali". Latitante, non un giorno di prigione e miliardi rubati agli italiani: durezza senza eguali? Un tuo conoscente è morto sul lavoro, scivolato da un tetto. Nessuno lo ricorda, era solo una brava persona. Poste, coda di mezz'ora. Un pagamento alla Agenzia delle Entrate di 35 euro per una contestazione sul calcolo delle tasse di tre anni prima. Dal vetro, sporco, degli uffici postali intravedi una Ferrari. Un pensionato spiega a un altro che lo Scudo Fiscale ha fatto rientrare i capitali in Italia. Loda Tremonti. Sai che i soldi non sono rientrati, che sono capitali di mafiosi, di corrotti e di evasori totali ripuliti con il 5% allo Stato. Guardi avanti a te. Paghi. Metropolitana. Un bambino di forse cinque anni suona il violino. Chiede la carità. La gente guarda sopra. Domani ci sarà un altro bambino schiavo al suo posto e nessuna autorità in giro. Cammini verso casa. Costeggi il fiume a piedi. Sulle rive, cassette di frutta e sacchetti di plastica. L'acqua di colore nero brunastro. Chi sarà ad inquinare? Qualcuno interverrà. Uno scivolo per portatori di handicap è occupato, come tutti gli altri a vista d'occhio. Nel prato di fronte a casa ci sono delle gru. Uno stabile di venti piani. La luce non entrerà più dalla tua finestra. Accenderai la luce. Ora la spegni, è tardi. La tua giornata di ordinario silenzio/assenso è finita". (Beppe Grillo)
venerdì 22 gennaio 2010
Lo Stato razzista
"Licenziato due anni fa dalla scuola media Volta-Gramsci di Cornigliano perché straniero, un giovane insegnante di origine marocchina si è rivolto al Tribunale del Lavoro di Genova. Ieri mattina i giudici gli hanno dato ragione: la scuola – e di conseguenza il ministero della Pubblica Istruzione – lo hanno «discriminato», il professore nordafricano ha diritto ad insegnare, e a tornare in graduatoria. Il ministero gli deve un risarcimento materiale – per il periodo in cui è stato messo alla porta – ed uno morale. Per un curioso gioco di omonimie, il giudice che ha pronunciato l´ordinanza si chiama Bossi. Margherita Bossi. E il giovane marocchino, Simohamed Kaabour, 28 anni, nel frattempo è diventato cittadino italiano. Avrebbe comunque acquisito il diritto ad insegnare. «Ma ho continuato a chiedere giustizia per una questione di principio. E perché altri stranieri come me abbiano la possibilità di insegnare nelle scuole italiane, contribuendo alla crescita culturale di tutti».Simohamed Kaabour lavora attualmente come mediatore culturale. E´ un italiano di seconda generazione, cresciuto nel nostro paese – dove ha raggiunto i genitori quando aveva solo dieci anni – e laureatosi all´Università di Genova in lingua araba e francese. Ma come i seicentomila figli di immigrati, dopo tanti anni e il raggiungimento della maggiore età non gli sono stati riconosciuti i diritti dei coetanei italiani. Una storia esemplare. Straniero nel suo paese, dopo la laurea il giovane professor Kaabour cerca lavoro. «Ho compilato il modulo per la graduatoria, convinto che non fosse essenziale il requisito della cittadinanza italiana. Quando mi hanno chiamato non ho pensato di aver aggirato l´ostacolo mentendo, ma di essere stato scelto per quello che sono: un insegnante qualificato». La scuola Volta-Gramsci di Cornigliano gli fa sottoscrivere un contratto a tempo determinato. Supplente di lingua francese. Ma dopo un mese, dall´istituto parte un contrordine: hanno ‘scoperto´ che Simohamed Kaabour non è italiano. Scatta il licenziamento, e la cancellazione dalla graduatoria per insegnanti. Con una spiegazione ufficiale: «Il signor Kaabour aveva presentato la domanda per la graduatoria in un altro istituto, non ci eravamo accorti che era privo di cittadinanza. Purtroppo noi non possiamo fare niente: il regolamento parla chiaro e la scuola automaticamente ha dovuto emettere un decreto di decadenza».
L´insegnante si rivolge alla Cgil Immigrati, del suo caso si occupa l´avvocato Alessandra Ballerini: che presenta ricorso al tribunale genovese, citando il Testo Unico sull´immigrazione dove si censurano le discriminazioni per motivi razziali, e contestando il decreto ministeriale del 2007 che tra i requisiti per gli insegnanti prevede quello della cittadinanza italiana. «Un extracomunitario che vive in Italia regolarmente da molti anni ed ha già inoltrato la richiesta di cittadinanza, è sicuramente più ‘legato´ al nostro paese di qualsiasi cittadino comunitario che magari dimora in Italia da pochi mesi», sostiene il legale. Il giudice Bossi le ha dato ragione.«Ero fiducioso, ho sempre creduto nella giustizia italiana», sorride Simohamed Kaabour. «Sono contento di passare alla storia di questo Paese, che è anche il mio Paese. In un periodo che non è certo dei migliori». Il professore spera che l´ordinanza del tribunale sia di stimolo per tutti. «Anche per quelli che vorrebbero non più del trenta per cento di studenti stranieri nelle classi. Io ho avuto la fortuna di essere ‘contaminato´ da due culture straordinarie - marocchina ed italiana -, e credo mi abbia permesso di essere una persona migliore. Conoscersi, comunicare: non c´è lezione migliore per qualsiasi studente, e di qualsiasi età». (La Repubblica)
L´insegnante si rivolge alla Cgil Immigrati, del suo caso si occupa l´avvocato Alessandra Ballerini: che presenta ricorso al tribunale genovese, citando il Testo Unico sull´immigrazione dove si censurano le discriminazioni per motivi razziali, e contestando il decreto ministeriale del 2007 che tra i requisiti per gli insegnanti prevede quello della cittadinanza italiana. «Un extracomunitario che vive in Italia regolarmente da molti anni ed ha già inoltrato la richiesta di cittadinanza, è sicuramente più ‘legato´ al nostro paese di qualsiasi cittadino comunitario che magari dimora in Italia da pochi mesi», sostiene il legale. Il giudice Bossi le ha dato ragione.«Ero fiducioso, ho sempre creduto nella giustizia italiana», sorride Simohamed Kaabour. «Sono contento di passare alla storia di questo Paese, che è anche il mio Paese. In un periodo che non è certo dei migliori». Il professore spera che l´ordinanza del tribunale sia di stimolo per tutti. «Anche per quelli che vorrebbero non più del trenta per cento di studenti stranieri nelle classi. Io ho avuto la fortuna di essere ‘contaminato´ da due culture straordinarie - marocchina ed italiana -, e credo mi abbia permesso di essere una persona migliore. Conoscersi, comunicare: non c´è lezione migliore per qualsiasi studente, e di qualsiasi età». (La Repubblica)
Lo Stato clericale
"Rimozione dall'ordine giudiziario. È la durissima sanzione inflitta dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura a Luigi Tosti, il giudice di Camerino (Macerata) accusato di omissione di atti d'ufficio per essersi rifiutato di celebrare le udienze del tribunale, per la presenza del crocifisso in aula. Una decisione che il diretto interessato contesta duramente: "Pagina nera, farò ricorso".Tosti - diventato celebre negli anni scorsi proprio per le sue battaglie contro la presenza di simboli religiosi in luoghi "istitutuzionali" - era stato assolto un anno fa dalla Cassazione, dopo una condanna in primo grado. Già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio nel 2006, dopo il verdetto di oggi non potrà più indossare la toga. Ma oggi è stato proprio lui a proporre ai membri del Csm due soluzioni alternative: ''O date ragione a me e rimuovete i crocifissi da tutte le aule di giustizia italiane, oppure non potete far altro che cacciarmi dalla magistratura'' ha detto, in sostanza. La disciplinare del Csm, che in passato aveva già sospeso Tosti ha scelto la seconda strada. "Oggi si è scritta una pagina nera per la laicità dello Stato italiano": questo è stato il commento di Tosti. Che ha annunciato che impugnerà questo verdetto "prima davanti alle sezioni unite civili della Cassazione, poi, se sarà confermata una sentenza negativa, mi rivolgerò alla Corte europea. Nessuno può essere obbligato a subire una violazione di diritti inviolabili nè a violare quelli degli altri, e nemmeno il principio costituzionale supremo di laicità".E sulla vicenda è intervenuto anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino. Spiegando così la decisione dell'organo di autogoverno: "Con l'intenzione di risolvere una questione di principio, il giudice Luigi Tosti s'era rifiutato di tenere udienza anche dopo che il presidente del tribunale gli aveva messo a disposizione un'aula senza il crocifisso, con ciò venendo meno all'obbligo deontologico e ai doveri assunti in qualità di magistrato che gli impongono di prestare servizio". E ancora: "Il Csm non è nè la Corte Costituzionale nè la Corte Europea; non doveva risolvere, e in effetti non ha risolto la questione della legittimità o meno di tenere il Crocifisso in un'aula giudiziaria. Il dottor Tosti è stato giudicato per essersi rifiutato di tenere comunque udienza fino a quando in tutti i Tribunali d'Italia non fossero stati rimossi i crocifissi". (La Repubblica)
giovedì 21 gennaio 2010
La mia vita dentro
"Leggo i tanti racconti che si intrecciano in questo libro ed osservo affascinato con quale profondità e nitidezza emergano i fondamentali del rapporto dialettico tra qualsiasi diritto penitenziario e qualsiasi sua declinazione pratica. In “Sorvegliare e punire” Foucault scriveva a proposito del carcere che esso assolve la sua funzione principale in quanto luogo di assoggettamento dei corpi, sia “dentro” che “fuori” le mura. Assoggettamento del corpo dei detenuti, quindi, ma anche del corpo di chi opera all’interno del “dispositivo carcerario” come medici, psicologi, educatori, dirigenti amministrativi e, non con minore efficacia, assoggettamento del corpo di coloro che fruiscono dello “spettacolo del penitenziario”. L’autore, Luigi Morsello, che di istituti penitenziari ne ha diretti tanti in diverse regioni d’Italia, in una parabola temporale che giunge fino ai giorni nostri abbracciando più di mezzo secolo, svela i sottili particolari del complesso e solo apparentemente caotico dispositivo carcerario con una testimonianza storica lucida e attenta al contesto sociale e culturale del “fuori”. Personaggi anonimi ed illustri si susseguono in una atmosfera a volte tragica a volte surreale, a volte iper-reale, per colorare con le loro vicende umane uno spaccato della storia del nostro paese che rinviene da un brusio di fondo in cui sovente si confondono il clangore di cancelli e le note acute della fanfara delle celebrazioni ufficiali. La narrazione curiosamente si ferma a diversi anni prima che Morsello si congedasse dall’Amministrazione Penitenziaria, gli anni della sua direzione di Lodi, dove abbiamo lavorato insieme. Potrei restare all’opera, ma preferisco lasciare la sorpresa al lettore e dedicare il breve tempo di una prefazione per parlare della mia esperienza dell’autore. La fama di Morsello raggiunse la Casa Circondariale di Lodi diverse settimane prima ch’egli venisse a dirigerla. Gli eventi di Pavia erano già noti agli operatori dell’Amministrazione Penitenziaria che non mancavano di trasmettere la loro preoccupazione. Già da alcuni anni, insieme alla collega Marika Romanici, gestivo un progetto sperimentale per il trattamento di detenuti autori di reati sessuali come ci era stato richiesto dalla precedente direttrice, ora direttrice C.C. di Milano “San Vittore”. Poichè Lodi rappresentava l’unica realtà attiva sul fronte “sexual offenders” nell’intero panorama nazionale l’iniziativa godeva del pieno appoggio del Provveditorato Regionale della Lombardia. L’annuncio dell’arrivo di Morsello coincise con la quasi certezza che “sarebbe finito tutto” ed invece tale arrivo coincise con il periodo più fertile del progetto nonchè della mia formazione nella filosofia del diritto penitenziario. Ogni qualvolta il “progetto Lodi” si incagliava in qualche paradosso che sembrava ineludibile nella declinazione pratica di qualsiasi Ordinamento Penitenziario il tanto temuto direttore invitava la collega Romanini e me nel suo studio e con tutti gli onori di un eccellente ospite, iniziando con il rito del caffè che da buon partenopeo era maestro nel preparare, tra una suite di Bach e un aneddoto tratto dalla sua esperienza personale, ci rendeva pratica tale filosofia illustrandoci il modo di dipanare la matassa. Sempre con una precisione lessicale ed un gusto per la parola che non ha nulla a che vedere coi vuoti tecnicismi di molti esperti del diritto. Leggendo questo libro ho riconosciuto alcuni frammenti delle preziose lezioni di quel periodo e sono felice del fatto che il Luigi Morsello abbia deciso di estendere tale privilegio al grande pubblico". (Pierluigi Morini) - Autore Luigi Morsello- Titolo: La mia vita dentro - Collana: i Saggi -Data di uscita: 20 febbraio 2010 - Pagine: 208 -Prezzo di copertina: € 14.00 Isbn: 978-88-89602-93-5 - http://www.webster.it/libri-mia_vita_dentro_morsello_luigi-9788889602935.htm)
mercoledì 20 gennaio 2010
martedì 19 gennaio 2010
lunedì 18 gennaio 2010
domenica 17 gennaio 2010
Africa e coca
"Sotto il Senegal, in Africa occidentale, c'è uno staterello semisconosciuto più piccolo della Svizzera e con solo un milione e mezzo di abitanti: la Guinea Bissau. Ma adesso quest'ex colonia portoghese - indipendente dal 1974 - sembra destinata a far parlare di sé, essendosi trasformata in un crocevia del traffico di cocaina dal Sudamerica all'Europa.Gruppi paramilitari e terroristici come Hezbollah, Al Qaeda e le Farc colombiane hanno infatti 'investito' sulla Guinea Bissau con grandi risultati. La droga, che viene da Venezuela, Colombia e Brasile, transita indisturbata grazie ad un arcipelago di novanta isole, un governo e un esercito profondamente corrotti e una totale mancanza di controlli. Insomma, il sogno di ogni narcos. La polizia possiede una sola automobile e i sessanta agenti incaricati di combattere i signori della droga possono fare poco o nulla contro criminali equipaggiati con tecnologie avanzatissime, mezzi di trasporto veloci e armi da guerra. Ma non si tratta soltanto di una questione criminale. Quello che preoccupa di più la comunità internazionale, infatti, è il ruolo crescente - in questo business - dell'estremismo islamico. In Guinea Bissau si è insediata da tempo una potente rete illegale libanese che amministra i proventi del commercio di cocaina per finanziare le attività di Hezbollah nella terra dei Cedri, con l'approvazione dei mullah che hanno concesso una fatwa speciale per benedire il traffico. Il quartier generale di questa rete è nella capitale del Paese, Bissau: è un grande albergo di lusso, il Palace Hotel, un edificio rosa e bianco con un pretenzioso colonnato ionico, sulla costa, a soli cinque minuti dall'aeroporto. Appartiene al miliardario libanese Tarek Arezki e qui, nel gennaio 2008, i servizi segreti francesi hanno arrestato Ould Sinda e Ould Sidi Chabarnou, due terroristi maghrebini di Al Qaeda che in Mauritania avevano trucidato a sangue freddo una famiglia di turisti francesi. Oggi la più grande fonte di risorse illegali di Hezbollah è proprio il traffico di droga gestito attraverso la diaspora libanese, un network di comunità ramificato in Africa Occidentale e America Latina. Quando la droga raggiunge le coste della Guinea Bissau, viene suddivisa in piccoli carichi che sono spediti verso il Marocco e il Senegal via mare, o attraverso la Mauritania via terra per poi valicare il Sahara e raggiungere le sponde del Mediterraneo. Interi convogli armati attraversano la regione del Sahel, controllata da gruppi di terroristi posizionati in tutta la regione sahariana. La centrale libanese basata a Bissau alimenta il business direttamente alla fonte, trattando con le Farc colombiane, per conto degli sciiti di Hezbollah, mentre le cellule sunnite di Al Qaeda fanno pagare ai trafficanti una sorta di dazio quando i contrabbandieri attraversano i loro territori, in Mauritania. In pratica, si arricchiscono tutti.Mentre la supervisione e l'organizzazione finanziaria del traffico è concentrata nelle mani dei libanesi, la manovalanza è fornita da una gang locale composta da guineani e nigeriani, coordinati in Guinea Bissau da un locale, Augusto Bliri. Qui Bliri è una leggenda vivente: da ragazzo è riuscito a emergere da Reno, il peggiore degli slum che circondano la capitale, e ha sfruttato la cocaina per costruirsi un impero economico. Oggi, ancora giovane e rampante, gira per la città a bordo di un fiammante Hummer giallo, mentre i suoi vecchi amici continuano a vivere nelle baraccopoli imprigionati dal crack, la droga sintetica sbarcata nel Paese assieme alla cocaina solo due anni fa.Già, il crack. Prima del 2007, in Africa occidentale era sconosciuto: oggi i cristalli maledetti composti dagli scarti della raffinazione della coca - la stessa piaga che venti anni fa fece esplodere le periferie delle metropoli statunitensi - sono diventati uno dei problemi sociali più gravi in Guinea Bissau, dove non esistono strutture per contrastarne il dilagare. Costa pochissimo e dà dipendenza in tempi rapidi, creando altre schiavitù e nuovi drammi. La prostituzione, quasi inesistente fino al 2007, adesso è aumentata e ha fatto moltiplicare il numero di sieropositivi. Come Sadia, una prostituta di vent'anni che passa le sue giornate a fumare 'quisa', il nome locale del crack. Inizia alle 10 del mattino, quando si sveglia, per poi passare la notte a battere. Ha bisogno dei soldi per drogarsi. E non usa preservativo con i suoi clienti, per la maggior parte occidentali che lavorano per le ong, l'Onu o le ambasciate.
La storia di Sadia è uguale a quella di Nadi, Fatima, Carolina e Rosa: farsi di crack qui è comune come da noi fumare una sigaretta. Nessuno ne conosce la pericolosità, i danni a lungo termine sono ignorati, non ci sono centri di prevenzione o recupero. Persino a livello statistico manca qualunque stima della generazione perduta. Perché in poco più di ventiquattro mesi il narcotraffico è riuscito a devastare questo piccolo paese. Ha corroso le strutture sociali e ha scatenato una lotta di potere che ha provocato un'instabilità politica impressionante. Un'idea del caos che regna in questo paese può essere fornita da quanto è successo il primo marzo scorso, quando nell'arco di nove ore la Guinea Bissau ha perso sia il presidente della Repubblica sia il comandante delle forze armate, uccisi entrambi nella guerra per il controllo del traffico che loro stessi avevano incentivato. Gli abitanti hanno saputo degli eventi alla radio, alle otto di sera, quando la consueta musica afropop è stata interrotta da un speaker che parlava, confusamente, di un'esplosione appena avvenuta al quartier generale dell'esercito. Chi quella sera ha provato ad andare a vedere che cosa stava accedendo, ha visto solo le macerie fumanti dell'edificio, con i soldati che puntavano i kalashnikov in faccia a chiunque tentasse di avvicinarsi troppo. Il generale Tagme Na Wai, potente capo di stato maggiore, era stato appena ucciso da una bomba. Poche ore dopo, iniziava a circolare un'altra notizia choc, quella della morte del presidente Joao Bernardo Vieira: assassinato mentre cercava di fuggire dalla sua residenza attaccata da un gruppo di militari fedeli al capo di stato maggiore appena ucciso. In quelle ore, lungo la strada che porta alla residenza di Vieira, la scena era apocalittica: decine di militari che sparavano in aria (e non solo) con le mitragliatrici, la gente che gridava e scappava, la jeep blindata del presidente ancora in mezzo alla strada, crivellata di colpi, con le gomme squarciate e i vetri in frantumi. Anche le auto della scorta erano ridotte in rottami. Sul muro della villetta si vedeva la breccia provocata da un razzo, che aveva trapassato quattro pareti per esplodere in salotto.Qualche ora dopo, nel comando militare, un plotone di soldati armati in stile Rambo sorseggiava un tè sotto un grande albero. "Siamo stati noi a uccidere il presidente Nino", si vantava tale Paul: "Siamo andati a casa sua, per interrogarlo sulla bomba che ha ucciso Tagme, il nostro generale. Quando siamo arrivati il presidente stava scappando con sua moglie. All'inizio ha negato tutto, ma poi ha confessato. Non solo ha ammazzato Tagme, ma ci ha reso anche la vita impossibile: siamo senza stipendio da sei mesi. Dopo avergli sparato, con un machete gli abbiamo tagliato le mani, le gambe e la testa. Adesso è morto di sicuro", ha chiuso Paul, scoppiando in una risata fragorosa, seguita da quella dei suoi uomini. A Vieira, dal settembre scorso, è seguito un altro presidente, Malam Bacai Sanhá. Ci si chiede quanto durerà, mentre sulla costa continuano a passare i carichi di coca diretti in Europa". (Marco Vernaschi-La Repubblica)
La storia di Sadia è uguale a quella di Nadi, Fatima, Carolina e Rosa: farsi di crack qui è comune come da noi fumare una sigaretta. Nessuno ne conosce la pericolosità, i danni a lungo termine sono ignorati, non ci sono centri di prevenzione o recupero. Persino a livello statistico manca qualunque stima della generazione perduta. Perché in poco più di ventiquattro mesi il narcotraffico è riuscito a devastare questo piccolo paese. Ha corroso le strutture sociali e ha scatenato una lotta di potere che ha provocato un'instabilità politica impressionante. Un'idea del caos che regna in questo paese può essere fornita da quanto è successo il primo marzo scorso, quando nell'arco di nove ore la Guinea Bissau ha perso sia il presidente della Repubblica sia il comandante delle forze armate, uccisi entrambi nella guerra per il controllo del traffico che loro stessi avevano incentivato. Gli abitanti hanno saputo degli eventi alla radio, alle otto di sera, quando la consueta musica afropop è stata interrotta da un speaker che parlava, confusamente, di un'esplosione appena avvenuta al quartier generale dell'esercito. Chi quella sera ha provato ad andare a vedere che cosa stava accedendo, ha visto solo le macerie fumanti dell'edificio, con i soldati che puntavano i kalashnikov in faccia a chiunque tentasse di avvicinarsi troppo. Il generale Tagme Na Wai, potente capo di stato maggiore, era stato appena ucciso da una bomba. Poche ore dopo, iniziava a circolare un'altra notizia choc, quella della morte del presidente Joao Bernardo Vieira: assassinato mentre cercava di fuggire dalla sua residenza attaccata da un gruppo di militari fedeli al capo di stato maggiore appena ucciso. In quelle ore, lungo la strada che porta alla residenza di Vieira, la scena era apocalittica: decine di militari che sparavano in aria (e non solo) con le mitragliatrici, la gente che gridava e scappava, la jeep blindata del presidente ancora in mezzo alla strada, crivellata di colpi, con le gomme squarciate e i vetri in frantumi. Anche le auto della scorta erano ridotte in rottami. Sul muro della villetta si vedeva la breccia provocata da un razzo, che aveva trapassato quattro pareti per esplodere in salotto.Qualche ora dopo, nel comando militare, un plotone di soldati armati in stile Rambo sorseggiava un tè sotto un grande albero. "Siamo stati noi a uccidere il presidente Nino", si vantava tale Paul: "Siamo andati a casa sua, per interrogarlo sulla bomba che ha ucciso Tagme, il nostro generale. Quando siamo arrivati il presidente stava scappando con sua moglie. All'inizio ha negato tutto, ma poi ha confessato. Non solo ha ammazzato Tagme, ma ci ha reso anche la vita impossibile: siamo senza stipendio da sei mesi. Dopo avergli sparato, con un machete gli abbiamo tagliato le mani, le gambe e la testa. Adesso è morto di sicuro", ha chiuso Paul, scoppiando in una risata fragorosa, seguita da quella dei suoi uomini. A Vieira, dal settembre scorso, è seguito un altro presidente, Malam Bacai Sanhá. Ci si chiede quanto durerà, mentre sulla costa continuano a passare i carichi di coca diretti in Europa". (Marco Vernaschi-La Repubblica)
sabato 16 gennaio 2010
venerdì 15 gennaio 2010
giovedì 14 gennaio 2010
mercoledì 13 gennaio 2010
martedì 12 gennaio 2010
lunedì 11 gennaio 2010
Occhio alla Carta!
"La Costituzione è giovane e ancora attuale, ma è purtroppo minacciata ed in pericolo. Forse sostenerlo per alcuni può sembrare allarmistico, ma ad osservare la cronaca politica si capisce quanto il rischio a cui essa è esposta sia reale e tangibile. Mentre alcuni partiti si impegnano ad apparecchiare l'indigeribile tavolo del confronto su presunte quanto vaghe riforme, l'idea di manomettere la Carta repubblicana, che anima soprattutto Berlusconi&co, è sempre una pietanza avvelenata pronta ad essere servita. Lo ha detto lo stesso presidente del Consiglio che la Costituzione è un cimelio vecchio da gettare nel baule del passato, lo ha ricordato di recente il ministro Brunetta proponendo di rivederla anche nella sua prima parte, quella fondante, in particolare per attaccare le norme relative al lavoro e alla rappresentanza sindacale. E lo dicono soprattutto gli atti del Governo. Le norme sull'immigrazione e la privatizzazione dell'acqua, i progetti in materia di giustizia e le leggi ad personam (lodo Alfano, processo breve, immunità, intercettazioni, legittimo impedimento): tutto l'operato della maggioranza è stato caratterizzato dalla negazione della Carta. Alle parole del Governo dunque seguono i fatti: raro caso in cui la coerenza politica non è virtù, ma catastrofe per la democrazia. Questa paura, che scaturisce da un tentativo politico che tecnicamente si può definire golpe senza incappare nell'esagerazione, è diffusa nella parte sana del Paese, che ha infatti scelto di scendere in piazza a Roma lo scorso 5 dicembre, animata da un contenuto squisitamente politico: difendere la Costituzione e la democrazia che su di essa poggia. Per questo l'appuntamento promosso ad Acquasparta il 22, 23, 24 gennaio è una delle tappe del cammino di resistenza pacifica e costituzionale che deve essere portato avanti dalla società civile e dalle associazioni, dai sindacati e dai partiti politici che vogliono veramente costruire un argine alla piena antidemocratica. Un aspetto centrale di questo cammino di resistenza pacifica e costituzionale consiste nella difesa di uno dei principi cardine di ogni democrazia compiuta: la libertà di informazione. Proprio sul terreno del diritto ad informare ed essere informati si gioca infatti il tentativo golpista del Governo: il controllo sulle notizie e soprattutto sulla loro circolazione significa esercitare un controllo direttamente sulle menti dei cittadini-elettori, condizionandone le scelte politiche. Il monopolio mediatico realizzato dal presidente del Consiglio è dunque una leva del suo consenso elettorale e la paura di perdere questo strumento di "potere" è ciò che lo ha spinto e lo spinge ad aggredire costantemente quotidiani e giornalisti che, nella sua prospettiva, hanno la colpa di raccontare i fatti, tutti i fatti, in modo indipendente. Li perseguita nelle aule di tribunale oltre che con le parole, li punisce per mezzo delle nomine dirigenziali nel servizio pubblico e privato, li delegittima attraverso una campagna mediatica. Di fronte a questo, non abbiamo scelta o via di fuga: costruire una barriera di difesa intorno alla nostra Costituzione per proteggere la nostra democrazia, opponendoci ad un piano eversivo per cui lottare domani sarebbe troppo tardi. Il tempo della resistenza pacifica e costituzionale è infatti l'oggi. Il suo spazio? Ogni luogo: dal Parlamento alle assemblee, dal posto di lavoro alla piazza. Soprattutto quest'ultima, che consente la partecipazione di ciascuno di noi, come granello indispensabile e insostituibile per difendere il nostro futuro". (Luigi de Magistris)
Razzismo all'italiana
"Come accoglieranno in Sudafrica, la patria dei fieri Zulu, l'unica nazionale europea che rifiuta giocatori di colore tra le sue fila? E' un fatto, non un'opinione. Quando gli azzurri giocano contro Olanda, Francia, Inghilterra, Germania, persino Svezia, incontrano anche avversari neri, ma loro sono sempre rigorosamente bianchi come l'allenatore. Mario Balotelli è il miglior attaccante giovane in circolazione, parla bresciano meglio di un leghista, ma rimane sempre un diverso. Nei civili stadi italiani gli tirano le banane, lo acclamano come: "sporco negro" o gli fanno l'imitazione della scimmia. Sui muri scrivono: "Negro di merda" e in Rete:"Balotelli crepa!". Se il ragazzo (ha solo 19 anni) si ribella in campo con un semplice applauso viene multato per 7.000 euro dal giudice sportivo. Balotelli è l'esempio del fallimento dell'integrazione di un Paese destinato alla violenza razziale perché razzista. Perché Mario non è ancora in Nazionale A? Ecco, questa è una bella domanda". (Beppe Grillo)
domenica 10 gennaio 2010
sabato 9 gennaio 2010
I nuovi schiavi lottano per noi
"La rivolta di Rosarno è la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie», per questo secondo quello che dice Roberto Saviano sono più coraggiosi di noi e non vanno criminalizzati ma scelti come alleati contro l'illegalità. «La prima - ricorda ancora Saviano - ci fu a Villa Literno nel 1989, la seconda a Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre in seguito ad aggressioni subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poichè per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte. E qualunque sia la nostra opinione sulle modalità della rivolta è necessario comprendere che ad essersi ribellata è la parte sana della comunità africana che non accetta compromessi con la 'ndrangheta».Per l'autore di Gomorra «gli immigrati che protestano sono nostri alleati nella battaglia all'illegalità e non dovremmo criminalizzarli. Mi piace sottolineare, a questo proposito, ancora una volta, che gli africani vengono in Italia a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare e a difendere diritti che gli italiani non vogliono più difendere". (Roberto Saviano)
"Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte.È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto.Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio.Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri.Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità.I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa.Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano.Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca. Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata.Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché – come diceva Fabrizio De Andrè – chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere. Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile". (Mimmo Calopresti)
"La Calabria è al centro dei riflettori quando a Locri viene ucciso Francesco Fortugno. La Calabria si impone all'attenzione pubblica quando il tritolo è piazzato davanti alla Procura Generale di Reggio. La Calabria smuove il Governo e i ministeri quando Rosarno si trasforma nel teatro di una rivolta di migranti a cui risponde la rabbia dei residenti, dando vita ad una guerra civile fra dimenticati dallo Stato. Fa dolore dover ammettere che questa terra merita interesse solo di fronte al dramma, per cadere nel dimenticatoio politico e mediatico appena si sgonfia "la notizia" e, gattopardescamente, tutto ritorna all'ordinario disordine di sempre. Rosarno è una "banlieue" in salsa italica dove la commistione fra 'ndrangheta e imprenditoria porta a galla una condizione di sfruttamento che ha come soggetti, soprattutto nel Meridione, gli immigrati che lavorano a chiamata secondo le esigenze stagionali della terra. Uno schiavismo moderno che ha come artefici le 'ndrine calabre che si arricchiscono sulle spalle della vita migrante, favorite dal silenzio complice delle istituzioni locali e nazionali. Dopo esser stati sfruttati dalle mafie, senza che lo Stato intervenga, gli immigrati vengono trasformati comodamente in bersagli del malessere sociale della cittadinanza. Alla politica è utile, soprattutto quando al Governo siedono ministri che sulla logica della "caccia al diverso" hanno fondato il loro consenso elettorale, ricattando anche le componenti più democratiche e cattoliche (se ci sono veramente) della maggioranza. Così la politica si serve delle mafie, è complice del loro operato: la rabbia dell'immigrato sfruttato dal crimine può essere infatti utilizzata come catalizzatore di un identico sentimento, quello del calabrese dimenticato e lasciato solo dalle Istituzioni. Due sofferenze dunque intimamente connesse: l'immigrato e il cittadino sono entrambi costretti a sopravvivere in una realtà economica di sottosviluppo dove lo Stato e la Politica non esistono e sono le cosche a sopperire a questa latitanza. Nello scontro che monta in queste ore, si assiste ad una guerra tra dimenticati che pone domande di legalità e di integrazione. In primis ci obbliga a ripensare la connessione fra occupazione lecita e soggiorno regolare, quando l'economia italiana si fonda sull'ingiustizia del lavoro nero e a fronte dello sfruttamento straniero non riconosce diritti agli sfruttati di cui si serve. Abrogare dunque la legge Bossi-Fini ma anche le norme marketing del pacchetto sicurezza perchè ingiuste e inutili, e pensare a riconoscere la cittadinanza a chi lavora e vive nel nostro Paese, con la coscienza che non solo produce ricchezza materiale ma anche culturale, perché il processo multiculturale è figlio dei tempi e l'integrazione una necessità obbligata. Indispensabile è poi una battaglia per la legalità del lavoro, perché non sia più frutto di clientele e compravendite politico-mafiose ma diritto costituzionale da attuare. Perseguire infine la criminalità organizzata e la sua infiltrazione istituzionale senza titubanze, sfruttando il movimento di legalità che esiste in queste aree del paese e che vede coinvolta la società civile, i sindacati, le associazioni e i semplici cittadini. Perché in questa "guerra tra poveri", certamente i poveri perdono e le mafie vincono, condividendo gli indegni allori insieme al volto colluso di una certa politica". (Luigi De Magistris)
"Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali scatenate nell´assalto agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati, rappresentano una vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa morale.
Di quale tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent´anni l´agricoltura del Mezzogiorno d´Italia si regge economicamente sull´impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d´assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale? Ora non li vogliono più, s´illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l´umanità. Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell´ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l´importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?
Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la "caccia al nero": disordini razziali che evocano scenari di un´America d´altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell´agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un´opera di civilizzazione che mal si concilia con l´offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d´ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un´azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire – con la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un´area rimasta povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla ´ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non c´entra un bel nulla. L´Italia dell´economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che restiamo l´unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un´informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.
Sulla scia di un´analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l´idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: "24h senza di noi". Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l´intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l´inciviltà dei pogrom è contagiosa". (Gad Lerner)
giovedì 7 gennaio 2010
L'opposizione è morta
“Se la politica italiana fosse un film, questo inizio di 2010 lo intitolerei ‘Le conseguenze dell’amore’. Il regime c’è da tempo. Ma ora si sta consolidando e inasprendo alla maniera classica dei totalitarismi: introducendo nella politica la categoria del sentimento per cancellare qualunque normalità democratica, qualunque ordinaria dialettica fra maggioranza e opposizione, fra governo e poteri di controllo e di garanzia. Il Capo pretende di essere amato, anzi adorato e, dopo l’attentato di Piazza Duomo, gioca sui sentimenti dei cittadini per ricattarli: ‘Chi non è con me è contro di me. Chi non mi adora mi odia’”. Barbara Spinelli non si è mai sottratta alle regole ferree del dizionario: ha sempre chiamato “regime” il berlusconismo. Ma ora vede un’altra svolta, una cesura estrema, un salto in avanti verso il baratro. Qual è precisamente questa svolta di regime nel regime?Nella testa di Berlusconi l’attentato di Piazza Duomo ha creato un prima e un dopo. Dopo, cioè oggi, nulla può più essere come prima. Si sente in guerra, anche se combatte da solo. E con il dualismo amore-odio crea una situazione militare: l’immagine del suo volto sfregiato e insanguinato, riproposta continuamente in tv e sui giornali, è per lui l’equivalente dell’attentato alle due Torri per Bush. Stessa valenza, stessa ossessività, stesso scopo ricattatorio. Con la differenza che, dietro l’11 settembre, c’era davvero il terrorismo internazionale. Dietro l’attentato a Berlusconi c’è solo una mente malata e isolata. Qual è la conseguenza politica?L’attentato al premier ha ancor di più narcotizzato la stampa italiana, che ha rapidamente interiorizzato il ricatto dell’amore e dell’odio. E il Pd dietro. Viene bollata come espressione di odio da neutralizzare, espellere, silenziare qualunque voce di opposizione intransigente. Cioè di opposizione. Tutti quei discorsi sul dovere del Pd di isolare Di Pietro. A leggere certi quotidiani, ci si fa l’idea che il vero guaio dell’Italia degli ultimi 15 anni non sia stato l’ascesa del berlusconismo, ma quella dell’antiberlusconismo. Quanti editoriali intimano ogni giorno all’opposizione di non odiare, cioè in definitiva di non opporsi! Come se l’azione isolata di un imbecille potesse e dovesse condizionare l’opposizione. Un ricatto che si riverbera anche sugli articoli di cronaca.A che cosa si riferisce?Alla strana indifferenza con cui si raccontano alcune scelte mostruose, eversive della maggioranza che inasprisce il suo regime senza più critiche né opposizione. Penso alle tre o quattro leggi ad personam fabbricate in queste ore nella residenza privata del premier. Penso all’orribile apposizione del segreto di Stato sugli spionaggi illegali scoperti dalla magistratura in un ufficio del Sismi e nell’apparato di sicurezza Telecom. A salvare con gli omissis di Stato gli spioni accusati di avere schedato oppositori, giornalisti e magistrati sono gli stessi che un anno fa creavano il mostro Genchi, dipingendolo come una minaccia per la democrazia, trasformando il suo presunto ‘archivio’ in una centrale eversiva.E Genchi operava legalmente per procure e tribunali, al contrario delle barbe finte della Telecom e del Sismi. Appunto, ma nella smemoratezza generale, facilitata dalla narcosi della stampa (per non parlare della tv), nessuno ricorda più nulla. Nessuno è chiamato a un minimo di coerenza, né di decenza. I sedicenti cultori della privacy che strillano a ogni legittima intercettazione giudiziaria tentano di controllare addirittura il cervello e i sentimenti del comune cittadino col ricatto dell’‘odio’. Fanno scandalo le intercettazioni legali, mentre lo spionaggio illegale viene coperto dal governo. Così il segreto di Stato diventa un lasciapassare preventivo a chiunque volesse tornare a spiare oppositori, giornalisti e magistrati. ‘Fatelo ancora, noi vi copriremo’, è il messaggio del regime. ‘Le operazioni illegali diventano legali se le facciamo noi’: un avvertimento per quel poco che resta di opposizione e informazione libera. E il Pd e i giornali ‘indipendenti’ non dicono una parola, soggiogati dalla sindrome di Stoccolma.Che dovrebbe fare, in questo quadro, l’opposizione?Vediamo intanto che cosa dobbiamo fare noi con l’opposizione: smettere di chiamarla opposizione. Diciamo ‘quelli che non governano’. Gli daremo la patente di oppositori quando ci diranno chiaramente che cosa intendono fare per contrastare il regime e cominceranno seriamente a farlo. Se è vero che Luciano Violante segnala addirittura al governo le procure da far ispezionare, se Enrico Letta difende il diritto del premier a difendersi ‘dai’ processi, se altri del Pd presentano disegni di legge per regalare l’immunità-impunità a lui e ai suoi amici, chiamarli oppositori è un favore. Li aspetto al varco: voglio sapere chi sono e cosa fanno.Ellekappa li chiama “diversamente concordi”.Appunto. Non si sono nemmeno accorti dello spartiacque segnato dall’attentato nella testa di Berlusconi, fra il prima e il dopo. Non hanno neppure colto la portata ricattatoria dell’ultimatum del premier perché le nuove leggi ad personam vengano approvate entro febbraio, altrimenti ‘le conseguenze politiche non saranno indolori’. Nessuno ha nulla da dire contro questo linguaggio da mafioso ai vertici dello Stato? Perché nessuno fa dieci domande su quella frase agghiacciante? E’ il Partito dell’Amore che si esprime così? Che dovrebbe fare l’opposizione per essere tale?Rendersi graniticamente inaccessibile a qualsiasi compromesso sulle leggi ad personam. Evitare di reagire di volta in volta sui piccoli dettagli, ma alzare lo sguardo al panorama d’insieme e dire chiaro e forte che siamo di fronte a una nuova svolta, a un inasprimento del regime. E respingere pubblicamente, una volta per tutte, questo discorso osceno sull’amore-odio.Tabucchi invita le opposizioni a coinvolgere l’Europa con una denuncia che chiami in causa le istituzioni comunitarie.Sull’Europa non mi farei soverchie illusioni: basta ricordare i baci e abbracci a Berlusconi negli ultimi vertici del Ppe. Io comincerei a dire che con questo tipo di governo non ci si siede a nessun tavolo, non si partecipa ad alcuna ’convenzione’, non si dialoga e non si collabora a cambiare nemmeno una virgola della Costituzione. Oddio, se vogliono ridurre i deputati da 630 a 500 o ritoccare i regolamenti, facciano pure: ma non è questo che interessa a Berlusconi. Come si fa a negoziare sulla seconda parte della Costituzione con chi, vedi Brunetta, disprezza anche la prima, cioè i princìpi fondamentali della nostra democrazia? Anziché dialogare con Berlusconi, quelli del Pd farebbero meglio a guardare a Fini, provando a fare finalmente politica e lavorando sulle divisioni nella destra, invece di inseguire, prigionieri stregati e consenzienti, il pifferaio magico. Spesso in questi mesi Fini s’è mostrato molto più avanti del Pd, che l’ha lasciato solo e costretto ad arretrare.Perché, con la maggioranza che ha, il Cavaliere cerca il dialogo col Pd?Anzitutto per un’irrefrenabile pulsione totalitaria: lui vorrebbe parlare da solo a nome di tutto il popolo italiano, ecco perché l’opposizione dovrebbe dirgli chiaramente che più della metà degli italiani non ci sta. E poi c’è una necessità spicciola: senza i due terzi del Parlamento, le controriforme costituzionali dovrebbero passare dalle forche caudine del referendum confermativo: e l’impunità delle alte cariche o della casta, per non parlare del “lodo ad vitam” di cui parlano i giornali, non hanno alcuna speranza di passare. Dunque è proprio sulla difesa della Costituzione e sul no a qualunque immunità che il Pd dovrebbe parlar chiaro. Invece è proprio lì che sta cedendo.L’ha soddisfatta il discorso di Napolitano a Capodanno?Mi ha impressionato più per quel che non ha detto, che per quel che ha detto. Mi aspettavo che, onorando i servitori dello Stato che rischiano la vita, non citasse solo i soldati in missione, ma anche i magistrati che corrono gli stessi rischi anche a causa del clima, questo sì di odio, seminato dalla maggioranza. Invece s’è dimenticato dei magistrati persino quando ha elencato i poteri dello Stato, come se quello giudiziario non esistesse più.Perché, secondo lei, tutte queste dimenticanze?È una lunga storia... Chi è stato comunista a quei livelli non ha mai interiorizzato a sufficienza i valori della legalità, della giustizia, dei diritti umani. Quando poi i comunisti italiani, caduto il Muro, hanno cambiato nome, sono diventati socialisti, e all’italiana: cioè perlopiù craxiani. Mentre la cultura socialista europea ha sempre difeso la legalità e la giustizia, il socialismo italiano degli anni ’80 e ‘90 era quello che purtroppo conosciamo. E chi, da comunista, è diventato craxiano oggi non può avvertire fino in fondo la violenza di quanto sta facendo il regime.Ora si apprestano a celebrare il decennale di Craxi.Mi auguro che il presidente della Repubblica non si abbandoni a festeggiamenti eccessivi. E non ceda alla tentazione di associarsi a questa deriva generale di revisionismo e di obnubilazione della realtà storica sulla figura di Craxi. Anche perché la riabilitazione di Craxi non è fine a se stessa: serve a svuotare politicamente e mediaticamente i processi a Berlusconi e a tutti i pezzi di classe dirigente compromessi con il malaffare. Riabilitano un defunto per riabilitare i vivi. Cioè se stessi". (Marco Travaglio intervista Barbara Spinelli)
mercoledì 6 gennaio 2010
Noi siamo laici
"Avviso tutti gli amici che mi hanno sostenuto nella battaglia per la rimozione dei crocifissi dalle aule dei tribunali italiani" commenta il magistrato Luigi Tosti "che il prossimo 22 gennaio 2010 alle ore 9:30 sarà celebrato, dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, Piazza Indipendenza n. 4, Roma, il procedimento disciplinare che è stato aperto, circa 5 anni fa, a mio carico per essermi io rifiutato di tenere le udienze sotto l'incombenza dei crocifissi. Un procedimento, questo, per il quale ho subito due condanne penali ad un anno di reclusione (poi annullate dalla Corte di Cassazione) e sto subendo, da 4 anni, la sospensione dallo stipendio e dalle funzioni. Mi difenderò da solo e l'udienza sarà pubblica (anche se l'aula non è particolarmente capiente). La presenza di televisioni sarebbe oltremodo gradita, non avendo io alcunché da nascondere o di cui vergognarmi: credo, però, che l'Avv. Nicola Mancino negherà le autorizzazioni per impedire che venga ripreso questo processo, degno della migliore Santa Inquisizione della Chiesa cattolica. In ogni caso, rappresento che presterò il consenso preventivo a quanti vogliano chiedere di riprendere il processo e divulgarlo. In caso di condanna e di conseguente rimozione dalla magistratura, adirò la Corte Europea dei diritti dell'Uomo: in caso di assoluzione e di reintegrazione in servizio, seguiterò a rifiutarmi di tenere le udienze sino a che il Ministro di Giustizia (oggi Angelino Alfano) non avrà rimosso l'ultimo crocifisso dall'ultima aula di giustizia della Colonia Pontifica, cioè dell'Italia. Presagisco (ed anzi spero) che i membri del CSM, per non offendere i desideri di Joseph Ratzinger conosciuto come Papa Benedetto XVI ed anche per non correre il rischio di essere linciati e di essere bollati come "ubriaconi" (com'è avvenuto per i giudici della CEDU Corte Europea dei Diritti dell'Uomo), opteranno per la prima soluzione. E' gradita la massima diffusione di questa notizia". (Luigi Tosti)
martedì 5 gennaio 2010
lunedì 4 gennaio 2010
Il Pd dei Fanfulla
"Caro Bersani,come sai, avevamo fissato un incontro per il prossimo 12 gennaio per discutere di elezioni regionali. Mi dispiace ma dobbiamo prima chiarire un punto fondamentale del nostro “stare insieme”: voi del PD volete allearvi o no con l’Italia dei Valori per costruire una valida alternativa al Governo delle destre berlusconiane? Sia chiaro, noi lo vogliamo perchè crediamo nel modello bipolare di rappresentare la democrazia parlamentare (ed in tale modello noi ci collochiamo nel centrosinistra, a prescindere da Berlusconi) e perché non ci piace la politica del “doppio forno”, un po’ di qua un po’ di là, portata avanti da altre forze politiche al cui capezzale tutti i giorni voi del PD vi prostrate. A noi di IDV invece mal ci sopportate. Tutti i giorni ci trattate come appestati, utili sì solo per motivi elettorali ma da criminalizzare e denigrare con la stessa foga e supponenza dei vari Bondi, Cicchitto e prezzemolino Capezzone del PDL. L’ultima goccia (che, se non ritrattata, rischia di rompere il vaso) è l’attacco che ci ha rivolto ieri il vicesegretario del PD Enrico Letta. Mi ero permesso di avvertire gli elettori del mio partito (attraverso il mio blog personale) del rischio che la democrazia corre nell’affidarsi all’attuale maggioranza parlamentare del centrodestra per fare le riforme e citavo come esempio il maldestro tentativo di un Ministro in carica (Brunetta) di voler modificare, in nome delle riforme, anche l’art. 1 della Costituzione (quello che garantisce il “diritto al lavoro”: come a dire che, siccome nel nostro paese non si trova lavoro tanto vale abrogarlo dalla Costituzione). Per dare maggiore spessore al mio grido di allarme ho anche segnalato che quelli del PDL stanno strumentalizzando le giuste parole del Capo dello Stato – ripeto, giuste come ho già avuto modo di chiarire sin dal primo momento –per creare un clima di “complicità posticcia” fra maggioranza ed opposizione. Il PDL, ribadisco, parla di riforme ma non pensa a quelle che servono al paese ed agli italiani ma solo a quelle utili per uso personale (di Berlusconi, in testa, ma non solo). Ho anche aggiunto – è vero e lo ripeto anche ora – che le parole dette a fin di bene dal Presidente Napolitano “forse sono state un po’ incaute, considerati gli interlocutori”. Esattamente così ho detto e non vedo proprio cosa ci sia di così offensivo nei confronti del Presidente della Repubblica in questa mia presa di posizione. Non ho criticato Napolitano come persona e nemmeno il suo discorso di buon senso (che anzi ho apprezzato) ma ho solo fatto rilevare come purtroppo questa maggioranza ora ne approfitterà per strumentalizzare - come sempre ha fatto finora – le aperture di credito del Presidente della Repubblica nei confronti del Governo Berlusconi. Solo per questa ragione oggettiva ho definito “forse incaute” (nel senso di speranze azzardate e mal riposte) le parole del Capo dello Stato. In un paese democratico non vedo proprio cosa ci sia di eversivo dall’esprimere le proprie idee, a meno che non si voglia sostenere che nel nostro paese alle forze di opposizione non sia nemmeno più possibile parlare (manco fossimo in Iran!).Mi sono apparse subito scontate le “critiche interessate” dei mestieranti del PDL (che non mi hanno fatto né caldo né freddo per quanto mi sono indifferenti) ma che l’amico Letta fecesse da grancassa, da sparring partner e da raccattapalle dei vari Cicchitto e Capezzone proprio no, questo non me lo sarei proprio aspettato e non posso accettarlo. Soprattutto noi di IDV non possiamo più aspettare il tuo silenzio, rispetto alle mille richieste che ti vengono da più parti circa il ruolo e la costruzione della coalizione del centrosinistra che hai in mente. E’ una coalizione che vuoi realizzare o no anche con Italia dei Valori? O pensi che siamo buoni solo in occasione delle varie elezioni per poi continuare a trattarci come appestati? Davvero anche tu pensi che il tipo di opposizione che fa IDV al Governo – opposizione che noi intendiamo continuare a fare con parole chiare ed in modo determinato ed inequivocabile – aiuti Berlusconi? Se è così, ebbene sappi che noi di IDV siamo invece convinti che siano le continue accondiscendenze ed i continui tentennamenti del vostro modo di fare opposizione (da signorini primi della classe che solo loro capiscono tutto) a creare sconcerto ed incertezze nell’elettorato.Luigi, mi appello alla tua intelligenza (e tu sai quanto io ti stimi sul piano personale): non cadere anche tu nel tranello di chi vuole a tutti i costi far passare l’Italia dei Valori come una forza estremista ed eversiva. E’ il disegno dettato da Berlusconi: l’isolamento ed il massacro mediatico di una forza come l’Italia dei Valori perché ha scoperto e denunciato, sin dal primo giorno di questa legislatura, il gioco sporco di chi utilizza le istituzioni per tutelare gli interessi di una sola persona. E’ il disegno del centrodestra che - per potersi garantire la sempiterna permanenza al governo - vuole dividere l’opposizione, criminalizzando e denigrando la parte più agguerrita di essa, grazie ai potenti mezzi di informazione che possiede o con cui ha fatto comunella (mi riferisco soprattutto alla stampa di proprietà delle solite potenti caste economiche). Luigi, non cadere anche tu nella provocazione di chi vuole dividere l’opposizione per continuare ad imperare e soprattutto non cadere nel tranello di chi ti invita al tavolo del dialogo e poi - dopo che tu gli hai dato la mano - ti frega il braccio utilizzando quel tavolo solo per farsi i cavoli suoi. Non prestare il fianco - almeno tu che sei una persona concreta e con i piedi per terra – ai tanti soloni del tuo partito che ti invitano a duellare con Berlusconi con un fiore in mano quando quello usa la scimitarra. E ricordati che non è attaccando l’Italia dei Valori che sconfiggi Berlusconi ma solo alleandoti seriamente e strutturalmente con chi sta dalla parte dei cittadini ed in difesa della Costituzione che puoi sperare di farcela. Dopo – ma solo dopo che hai deciso cosa fare - fatti risentire che parliamo di elezioni regionali.Ciao, spero a presto"
(Antonio Di Pietro)
(Antonio Di Pietro)
Quando si finge di combattere la mafia
" Chi parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che 'ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l'anno, ed è una stima per difetto. La 'ndrangheta - come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri - compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni. E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali. Proprio dinanzi a fatti come l'attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro 1paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le 'ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le 'ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.
Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La 'ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l'operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo. Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le 'ndrine vogliono che una corrente prevalga sull'altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell'antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell'antimafia. Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l'attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è. A Reggio Calabria l'arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell'anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle 'ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le 'ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l'ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All'inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione diBenedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposiCaterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia diPasquale; il secondo, il figlio diAlfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l'episodio il settimanale diocesano l'Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all'ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima 'ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo. Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un'amica si parlava dell'altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c'è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...". Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare. È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell'attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l'attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un'opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti. Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell'unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell'uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico. L'altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio. Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell'esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve. Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l'unica prova dell'efficacia della lotta alla mafia. Ma l'esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all'asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investistigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l'episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l'inizio". (Roberto Saviano).
Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La 'ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l'operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo. Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le 'ndrine vogliono che una corrente prevalga sull'altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell'antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell'antimafia. Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l'attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è. A Reggio Calabria l'arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell'anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle 'ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le 'ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l'ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All'inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione diBenedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposiCaterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia diPasquale; il secondo, il figlio diAlfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l'episodio il settimanale diocesano l'Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all'ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima 'ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo. Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un'amica si parlava dell'altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c'è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...". Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare. È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell'attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l'attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un'opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti. Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell'unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell'uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico. L'altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio. Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell'esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve. Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l'unica prova dell'efficacia della lotta alla mafia. Ma l'esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all'asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investistigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l'episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l'inizio". (Roberto Saviano).
domenica 3 gennaio 2010
Verso lo Stato assoluto
"Ogni regime fonda la sua esistenza sulla distruzione degli oppositori, l’intimidazione dell’avversario, la criminalizzazione di ogni forma di dissenso. Il peronismo berlusconiano basa molto del suo consenso sulla propaganda di regime e sulla persecuzione delle opposizioni.
Questo consenso che accompagna Berlusconi è in buona parte drogato, falsato, artato.
Il controllo, diretto o indiretto, di parte significativa dei mezzi di comunicazione da parte del dittatore-padrone, gli consente di costruire campagne mediatiche per accrescere il consenso attorno a lui e alla sua servente e servile maggioranza. Fa politica con le carte truccate il grande mestatore di coscienze. Il piduista non accetta la sfida di agire politicamente in condizioni di parità con l’avversario. Non accetta l’assenza di conflitti d’interesse, in quanto il consenso falsato di cui gode si ridurrebbe immediatamente. Essendosi comprato, nel corso degli anni, i mezzi di informazione, l’assenza di eticità e trasparenza che connota il suo agire non lo condurrà mai ad accettare sfide in condizioni di parità perché, come tutti i dittatori, ciò che teme è proprio il confronto alla pari.Altro aspetto tipico dei regimi neo-autoritari, fortemente impregnati di poteri occulti, è quello di agire nel rispetto apparente della legalità. È quello di crearsi norme a proprio piacimento e somiglianza in modo da ingannare il popolo facendo intendere che i governanti agiscono nel rispetto della legge. In realtà, vi è una produzione di norme illegittime tese a garantire al dittatore un agire apparentemente legale. Leggi illegittime, provvedimenti amministrativi contra legem, prassi illegali. Il governo abusa del diritto per rendere la norma autoritaria.
La Costituzione è violata attraverso la legislazione ordinaria: il Lodo Alfano, lo scudo fiscale, la legge che limita i poteri del pubblico ministero, quella sulla prescrizione breve, la legge sulle intercettazioni.
Il custode della Costituzione non dovrebbe più far finta di nulla.
Il regime dei poteri forti, oggi personificato da Silvio Berlusconi, domani non sappiamo da chi, desidera una magistratura prona al potere politico. Una magistratura che obbedisca ai desiderata della politica, servente dei poteri forti. Parte della magistratura si sta già adeguando da tempo, come accaduto durante il fascismo. Il tutto con il rispetto, apparente, delle norme. Il regime della carta da bollo, come i legulei ai tempi del podestà. Un regime legale, ancor più pericoloso di quello dell’olio di ricino. Difatti, alla violenza fisica delle dittature si può opporre la resistenza fisica; a questo regime, che ha il volto della violenza morale e della violenza della legge, si deve opporre una sana e robusta, oltre che pacifica, resistenza costituzionale.È evidente che ogni forma di dissenso viene criminalizzata. Si prende a pretesto una banale azione di un folle o di un criminale – non tenuto a bada dalle guardie presidenziali - per aggredire l’opposizione politica e sociale, per tentare di controllare la rete, per criminalizzare le piazze.
Si mettono in campi gli ‘arnesi’ del regime. La dittatura berlusconiana – ben puntellata da quella parte dell’opposizione consociativa - inculca il pericolo della sovversione e dell’estremismo. In realtà, l’eversione dell’ordine democratico è al Governo, da tempo.
Un regime che sta smantellando la democrazia e lo Stato di diritto, disintegrando anche lo Stato sociale di diritto, ossia il nerbo del nostro Paese. La criminalizzazione delle opposizioni è decisiva per il regime in quanto i contrappesi costituzionali e istituzionali sono, ormai, sempre più labili.
La Presidenza della Repubblica è timida nella difesa della Costituzione, agisce in maniera insoddisfacente, con un’azione fortemente sistemica.
La magistratura è intimidita, resa sempre più burocratica e inconcludente nel suo agire. Il conformismo giudiziario prende sempre più corpo. Meno male che vi sono ancora magistrati dalla schiena dritta che onorano l’ordine giudiziario. Taluni oppositori parlamentari sono attratti più dal dialogo con il dittatore che da alleanze forti con chi si oppone al regime. Quello che terrorizza il regime è il dissenso nel Paese. Dissenso che si fonda sull’informazione di giornalisti e narratori liberi. Il regime ha paura del pensiero libero e critico. Il regime teme l’organizzazione del dissenso, del suo manifestarsi, ma soprattutto teme che si possa concretizzare in agire collettivo. Ecco perché il regime passa dalla scomunica della piazza, quale antipolitica, all’allarme sovversione. Si vuole intimidire e impaurire chi partecipa. La partecipazione terrorizza la dittatura. Si vogliono creare le condizioni per criminalizzare il conflitto sociale. Si prendono gioco del dramma del lavoro.
Al dittatore e ai suoi servi non interessa nulla del popolo che soffre, anzi sfruttano dolori e drammi per rendere il Paese ancora più autoritario, guidato dalla borghesia mafiosa. Il regime teme l’unione tra opposizione parlamentare ed opposizione sociale e di piazza. Il regime teme il crollo attraverso mobilitazioni di lavoratori, di senza lavoro, di precari, di studenti, di impiegati, di operai. Il regime teme il popolo informato, ha paura del pensiero libero . Allora tenta di drogarlo o narcotizzarlo con la propaganda di regime o di criminalizzarlo.È compito del popolo, custode della democrazia e della Costituzione, mettere in azione la ribellione democratica, indignata, non violenta, per far crollare questo regime populista e far ritornare nel nostro Paese la democrazia alimentata dal fresco profumo di libertà". (Luigi De Magistris)
Questo consenso che accompagna Berlusconi è in buona parte drogato, falsato, artato.
Il controllo, diretto o indiretto, di parte significativa dei mezzi di comunicazione da parte del dittatore-padrone, gli consente di costruire campagne mediatiche per accrescere il consenso attorno a lui e alla sua servente e servile maggioranza. Fa politica con le carte truccate il grande mestatore di coscienze. Il piduista non accetta la sfida di agire politicamente in condizioni di parità con l’avversario. Non accetta l’assenza di conflitti d’interesse, in quanto il consenso falsato di cui gode si ridurrebbe immediatamente. Essendosi comprato, nel corso degli anni, i mezzi di informazione, l’assenza di eticità e trasparenza che connota il suo agire non lo condurrà mai ad accettare sfide in condizioni di parità perché, come tutti i dittatori, ciò che teme è proprio il confronto alla pari.Altro aspetto tipico dei regimi neo-autoritari, fortemente impregnati di poteri occulti, è quello di agire nel rispetto apparente della legalità. È quello di crearsi norme a proprio piacimento e somiglianza in modo da ingannare il popolo facendo intendere che i governanti agiscono nel rispetto della legge. In realtà, vi è una produzione di norme illegittime tese a garantire al dittatore un agire apparentemente legale. Leggi illegittime, provvedimenti amministrativi contra legem, prassi illegali. Il governo abusa del diritto per rendere la norma autoritaria.
La Costituzione è violata attraverso la legislazione ordinaria: il Lodo Alfano, lo scudo fiscale, la legge che limita i poteri del pubblico ministero, quella sulla prescrizione breve, la legge sulle intercettazioni.
Il custode della Costituzione non dovrebbe più far finta di nulla.
Il regime dei poteri forti, oggi personificato da Silvio Berlusconi, domani non sappiamo da chi, desidera una magistratura prona al potere politico. Una magistratura che obbedisca ai desiderata della politica, servente dei poteri forti. Parte della magistratura si sta già adeguando da tempo, come accaduto durante il fascismo. Il tutto con il rispetto, apparente, delle norme. Il regime della carta da bollo, come i legulei ai tempi del podestà. Un regime legale, ancor più pericoloso di quello dell’olio di ricino. Difatti, alla violenza fisica delle dittature si può opporre la resistenza fisica; a questo regime, che ha il volto della violenza morale e della violenza della legge, si deve opporre una sana e robusta, oltre che pacifica, resistenza costituzionale.È evidente che ogni forma di dissenso viene criminalizzata. Si prende a pretesto una banale azione di un folle o di un criminale – non tenuto a bada dalle guardie presidenziali - per aggredire l’opposizione politica e sociale, per tentare di controllare la rete, per criminalizzare le piazze.
Si mettono in campi gli ‘arnesi’ del regime. La dittatura berlusconiana – ben puntellata da quella parte dell’opposizione consociativa - inculca il pericolo della sovversione e dell’estremismo. In realtà, l’eversione dell’ordine democratico è al Governo, da tempo.
Un regime che sta smantellando la democrazia e lo Stato di diritto, disintegrando anche lo Stato sociale di diritto, ossia il nerbo del nostro Paese. La criminalizzazione delle opposizioni è decisiva per il regime in quanto i contrappesi costituzionali e istituzionali sono, ormai, sempre più labili.
La Presidenza della Repubblica è timida nella difesa della Costituzione, agisce in maniera insoddisfacente, con un’azione fortemente sistemica.
La magistratura è intimidita, resa sempre più burocratica e inconcludente nel suo agire. Il conformismo giudiziario prende sempre più corpo. Meno male che vi sono ancora magistrati dalla schiena dritta che onorano l’ordine giudiziario. Taluni oppositori parlamentari sono attratti più dal dialogo con il dittatore che da alleanze forti con chi si oppone al regime. Quello che terrorizza il regime è il dissenso nel Paese. Dissenso che si fonda sull’informazione di giornalisti e narratori liberi. Il regime ha paura del pensiero libero e critico. Il regime teme l’organizzazione del dissenso, del suo manifestarsi, ma soprattutto teme che si possa concretizzare in agire collettivo. Ecco perché il regime passa dalla scomunica della piazza, quale antipolitica, all’allarme sovversione. Si vuole intimidire e impaurire chi partecipa. La partecipazione terrorizza la dittatura. Si vogliono creare le condizioni per criminalizzare il conflitto sociale. Si prendono gioco del dramma del lavoro.
Al dittatore e ai suoi servi non interessa nulla del popolo che soffre, anzi sfruttano dolori e drammi per rendere il Paese ancora più autoritario, guidato dalla borghesia mafiosa. Il regime teme l’unione tra opposizione parlamentare ed opposizione sociale e di piazza. Il regime teme il crollo attraverso mobilitazioni di lavoratori, di senza lavoro, di precari, di studenti, di impiegati, di operai. Il regime teme il popolo informato, ha paura del pensiero libero . Allora tenta di drogarlo o narcotizzarlo con la propaganda di regime o di criminalizzarlo.È compito del popolo, custode della democrazia e della Costituzione, mettere in azione la ribellione democratica, indignata, non violenta, per far crollare questo regime populista e far ritornare nel nostro Paese la democrazia alimentata dal fresco profumo di libertà". (Luigi De Magistris)
sabato 2 gennaio 2010
Lodo De Magistris: "Purché se ne vada..."
"Scappare dai tribunali e dalla legge ad ogni costo? Lodo Alfano, Lodo Alfano Bis, Lodo Costa, processo breve, ddl intercettazioni, riforma della Consulta, ritocco del concorso esterno? Basta, siamo stanchi e c'è da chiedersi, citando Cicerone, per quanto tempo ancora questo novello Catilina abuserà della nostra pazienza. Forse sarebbe saggio che qualcuno proponesse veramente un Lodo, ma per salvare il paese da Berlusconi. Qualche idea me la sono fatta e in osservanza alla prassi inaugurata dal governo, lo chiamerei "Lodo de Magistris". Pochi punti da definire insieme e non serve nemmeno cambiare la Costituzione , perché approvato in sua difesa, e se anche ci fosse un referendum, credo passerebbe con grande consenso. La proposta di fondo è questa: garantiamo a Berlusconi la possibilità di lasciare l'Italia senza conseguenze. Non c'è trucco e non c'è inganno: solo il bisogno di ritornare ad essere una nazione democratica e civile. Un volo di Stato -sembra gli piacciano tanto- con annesso Apicella e magari una graziosa signorina. Destinazione? Consigliamo le isole Cayman, che risultano affini persino ad uno dei tanti soprannomi che si è conquistato con anni di (dis) onorevole carriera: il caimano. Sarebbe per lui un modo per ritrovare, magari, anche qualche vecchio capitale messo in salvo all'estero. E se si annoia? Qualche cavallo e stalliere di fiducia li potrebbe trovare anche lì. Ci permettiamo di suggerire una sola accortezza: che non si chiamino Vittorio e non frequentino Marcello. Il rischio infatti è che anche alle Cayman la storia si ripeta: coppole e appalti nelle isole esotiche sarebbero indigeribili. Carta e tv liberate potranno riprendere a fare il loro dovere: informare sui fatti, gli stessi che da anni cerca di occultare perseguitando i giornalisti anche se pongono solo domande, cioè fanno il loro mestiere, ovviamente quelli che sopravvivono all'infezione dell' autocensura preventiva. Il Parlamento tornerebbe al proprio compito perché svincolato dalla sua agenda giudiziaria che oggi detta i temi, anzi il tema alle istituzioni: le necessità giudiziarie del fuggitivo da garantire prima di quelle degli italiani. La magistratura non più costretta agli assaliti quotidiani potrebbe dedicarsi senza timore alla missione che le spetta e le mafie non si sentirebbero più di poter spadroneggiare indisturbate. Per le casse dello Stato il guadagno sarebbe altissimo, per non parlare di quello dell'etica pubblica. Finito l'inquinamento di tutti gli ambiti economici e mediatici, il mercato finalmente alleggerito dalla cappa del suo conflitto di interessi, forse riprenderebbe a girare normalmente. E le somme ritrovate, anche con una lotta all'evasione certa, potrebbero essere investite nella formazione e nell'istruzione: una sorta di 8 per mille dell'antibelusconismo. Ma soprattutto noi non sentiremo più quel mantra che riecheggia dai contesti internazionali alle riunioni riservate e che vuole comunisti, bandiere rosse, manette impazzite accanirsi contro un solo uomo. Finalmente in questa patria liberata non ci saranno più scudi fiscali e lodi ad personam, decreti razzisti e leggi fondamentaliste, emendamenti che ridanno alle mafie ciò che lo Stato ha tolto loro. E noi? Noi semplicemente torneremo ad essere un paese normale, degno dell'Europa e della civiltà democratica. Fantascienza? Forse. Sicuramente la stessa a cui ci ha abituati con le sue dichiarazioni e le sue azioni politiche surreali: diciamo degne di un altro pianeta, se esiste". (Luigi De Magistris)
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