sabato 14 febbraio 2009

Quando l'ignoranza uccide.

"Con il suo nome - Navtej Singh Sidhu - non lo chiama nessuno. L'uomo di trentacinque anni arso vivo da mani italiane nella notte tra il 31 gennaio e l'1 febbraio scorsi su una panchina di marmo della stazione di Nettuno è "l'indiano". "L'indiano" e basta. "Come va con l'indiano?", chiedono due interniste trafelate affacciandosi alle porte spalancate dell'unità di rianimazione dell'ospedale Sant'Eugenio. "Che cerca forse l'indiano?", domanda un portantino. "Mi scusi, sono qui per l'indiano", accenna con deferenza verso il medico di guardia Singh Balraj, uomo piccolo e sorridente che guida la comunità romana. "Sono con i parenti arrivati dall'India. La nonna e il cognato. Vorrebbero sapere come sta". "Sì, ma a noi chi ce lo dice che sono parenti? Ce lo dice lei?". L'"indiano" è una mummia di garza sterile oltre un vetro spesso tre dita. Protetta da un paravento di tela grigia che ne mostra di sguincio il profilo. I polmoni si gonfiano del ritmo regolare della ventilazione artificiale che pompa ossigeno attraverso una cannula introdotta nella gola. Il monitoraggio cardiaco è un impulso elettrico verde che registra ogni picco del cuore. Gli occhi sono chiusi dalla sedazione. Le dita, trafitte dalle flebo. L'indiano è grave. Lo hanno operato per la seconda volta. Riaprendo piaghe chiuse appena una settimana fa. I chirurghi sono tornati a sollevare la cute di cadavere fatta arrivare a Roma dalla banca della pelle di Cesena e utilizzata per tamponare l'aggressione delle infezioni sviluppate dai tessuti necrotizzati. Hanno affondato di nuovo il bisturi nell'addome, nei quadricipiti, nei polpacci. Per scoprire che le fiamme, quella notte, si sono mangiate tutto quello che hanno incontrato. Fino all'osso. Per cinque ore, un bisturi a idrogetto ha sparato acqua a 1.500 chilometri orari tra una fascia muscolare e l'altra ripulendo tessuto morto. Anche dove, sulle creste tibiali, di tessuto non ce ne era più. Un secondo bisturi ha inciso francobolli di cute lungo le braccia per trasferirle su gambe e addome. La chiamano "tecnica di Alexander". E' un autotrapianto che serve a proteggere e ricostruire lentamente il corpo quando, tra qualche giorno, rigetterà la cute che lo ha sin qui protetto e che non gli appartiene. Quella di cadavere.
L'indiano è grave. Vito Verardi, uno dei chirurghi dell'equipe, strizza per un attimo gli occhi arrossati dalla stanchezza. "Mi creda, è incredibile il fuoco che ha preso quel ragazzo. Dobbiamo aspettare la notte. Perché sarà una notte difficile". Poi abbassa repentinamente la voce. La nonna e il cognato dell'"indiano" si sono fatti avanti a piccoli passi. Se ne stanno a piedi giunti sulla linea che divide una fila di poltroncine in plastica azzurra dal linoleum verde della rianimazione. "Avtor Singh", si inchina lui congiungendo le mani e provando a scandire il suo nome. Poi indica la vecchia che gli si stringe a un braccio, "Tej Kaur". La testa di Avtor è stretta in un turbante arancione. La veste, di cotone, è coperta da un giubbetto di velluto verde. I piedi nudi, viola per il freddo, calzano delle khusa d'argento, pantofole di cuoio aperte sul collo. "Le scarpe della festa", dice Singh Balraj con un sorriso. Non pantofole di feltro, come quelle che proteggono i piedi piccoli e malfermi di Tej. La donna ha 87 anni. E non vede suo nipote da nove. Da quando, 18 febbraio del 2000, lasciò il Punjab per l'Italia. Avtor si spacca la schiena nei campi di Dala, un villaggio di agricoltori nel Punjab. Tej veglia sulla nipote e i due pronipoti, che è tutto quello che le è rimasto nella vita dopo che l'altro nipote Navtej è partito per l'Italia. Per trovarli ci sono voluti dieci giorni. Per portarli in questo seminterrato del sant'Eugenio, tre. I soldi del biglietto non li avevano. Li ha tirati fuori la comunità indiana a Roma, che li ospiterà per una settimana, e, a titolo personale, l'assessore regionale Silvia Costa, che ora li guarda in disparte e insieme a Singh si fa interprete con i medici. Verardi scuote la testa. Stringe delicatamente le spalle della nonna. "E' meglio di no. E' meglio che non veda. Non ora". Tej sorride e non capisce. Non parla una parola che non sia il dialetto del Punjab. Chiede a Singh che ringrazi tanto i medici. Verardi si rivolge allora a Avtor. "Forse solo lei, se vuole, può venire dietro il vetro. Ma forse, sarebbe meglio in un altro momento. Magari domani mattina". Avtor fissa con uno sguardo interrogativo Singh e chiede allora se non sarà troppo tardi. Chiede che raccontino ai medici quanto è durato il suo viaggio. Promette che vuole solo vedere. Solo vedere, ripete. Gli è concesso un minuto. Dietro il vetro. Dove qualcuno gli indica un corpo che altrimenti non riconoscerebbe. "Sta bene", dice alla nonna quando esce. "Dorme". Gli si avvicina allora una signora dai capelli bianchi. Lo sfiora con un gesto di affetto. E' la figlia della donna di 88 anni che divide con Navtej la stanza in cui entrambi vengono tenuti in vita. "Anche mamma dorme", dice. "Dormono sempre". Sono arrivati insieme al sant'Eugenio. Lui arso vivo da una bottiglia di birra piena di benzina. Lei da una stufa elettrica. "Meno male che adesso questa povera creatura ha qualcuno. Stella mia, è così giovane". Dal primo febbraio lei non è mai mancata. Era il giorno in cui al capezzale di Navtej accorsero in tanti. Il giorno in cui lei chiese, di fronte al seguito di cronisti e guardie del corpo e riflettori che accompagnavano il presidente del Senato, Renato Schifani, se fosse possibile non spaventare la madre. E' stata accontentata. L'indiano non lo ha cercato più nessuno. L'indiano è diventato un bollettino medico di dieci righe quotidiane, buono per una breve in cronaca. Quello di stasera dice che l'indice di sopravvivenza è ancora fermo al 40 per cento. Sei possibilità su dieci di non farcela. "Intanto superiamo la notte. Intanto aiutiamolo a tornare a respirare da solo", si congeda Verardi. E poi? "E poi sarà comunque un calvario. Le operazioni sono appena cominciate". Avtor e Tej ascoltano e non capiscono. Sorridono. "A domani mattina, allora", dice Singh. "A domani". (La Repubblica)

2 commenti:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Ciao, Antonio, ti confesso che sono sgomento, sì, io a 71 anni suonati sono sgomento, mi pare che tutto frani intorno a noi.
Legge sulle intercettazioni, lodo Alfano, minacce di sanzioni penali, pesanti sanzioni pecuniarie agli editori:che cazzo sta succedendo ?
Com'è che ci siamo ridotti a questo punto ?
Il peggio è la sensazione che alla maggiornaza della popolazione non gliene freghi niente !
Che cosa faranno quando si troveranno senza lavoro ?

ilgorgon ha detto...

Io capisco bene perché tutto questo. Dal 1994 la democrazia, oggi con successo, ha visto l'assalto ai palazzi del potere da parte di quei signori che non venivano più protetti dalla stessa (vedi Mani Pulite-Craxi-Berlusconi). Malavita organizzata, salotti neri, chiesa, imprenditoria, persone senza scrupoli, massoni, banchieri e quant'altro, si sono seduti attorno ad un tavolo ed hanno deciso che loro dovevano banchettare sulla testa degli italiani. Si sono chiesti anche come avere il consenso legale. Semplice, attraverso il rincoglionimento della popolazione meno preparata e più ingenua, attraverso una continua campagna di disinformazione e di risposta agli istinti più bassi della maggioranza degli italiani. La scelleratezza, l'incongruenza e l'indifferenza di chi poteva fare qualcosa ha fatto il resto. Ecco che oggi siamo in mano ad una masnada di banditi legalizzati che, se tutta la parte sana del Paese non si mobilita concretamente, ci sta portando allo sfascio totale. Sai quante persone di dubbio affare aspettavano che il nostro premier prendesse il potere per poter fare bene gli affari? Una buona parte di italiani pronti ad arraffare l'arraffabile. La malavita, la chiesa più retrogada, i signorotti della padania che si sono arricchiti con la benevolenza dell'allora democrazia cristiana e i fascisti oggi decidono le nostre sorti. Il rusiltato è sotto gli occhi di tutti.