A questo e molti altri interrogativi risponde in maniera parzialmente esaustiva un agile libro edito da Baldini-Castoldi-Dalai da pochi giorni nelle librerie: "L'Africa in guerra", di Alberto Sciortino, coordinatore di progetti di sviluppo per l’Ong "Sud-Sud".
"Nel continente africano- scrive Sciortino- si è venuto a creare un “sistema economico di guerra”, che coinvolge una parte rilevante di risorse, esseri umani, territorio e settori produttivi. Una strategia che è essa stessa un interesse, che si autoalimenta e che oppone “ chi possiede le armi a quelli che ne sono privi”.
L’intento dell’autore, che attinge a contributi di studiosi del settore come Achille M’Bembe, Elikia M’Bokolo, Anna Maria Gentili e Gianpaolo Calchi Novati è quello di porgere una bussola al lettore ingenuo per potersi orientare nella complessità delle vicende socio-economiche e storico-politiche dell’Africa.
Egli spiega che l’economia di guerra ha propri settori specifici come, ad esempio, il traffico di minerali, quello della gomma e quello del legname. E che le armi sono i mezzi di produzione e la valuta di scambio, che creano regole commerciali e specifici soggetti economici.
Un meccanismo interno ai processi di globalizzazione insomma,che produce guerre devastanti e senza soluzione.
Nel Nord dell’Uganda- prosegue Sciortino- fra la popolazione Karimojong, finchè i conflitti clanici erano regolati con armi tradizionali e tenendo conto dell’autorità degli anziani, il numero di vittime è sempre stato limitato. Quando negli anni ’90 sono arrivati dai 30 ai 40mila AK-47, le cose sono notevolmente cambiate.
Possedere un fucile mitragliatore era diventato un elemento di prestigio economico e sociale. Talora il fucile faceva parte della dote in occasioni di nozze. E,quando la pace non dà più da vivere, la guerra costituisce un’alternativa economica.
Il nuovo quadro politico del continente africano purtroppo negli ultimi tempi ha solo moltiplicato elezioni e democrazie di facciata.Lo vediamo ogni giorno. Le classi popolari non decidono nulla e subiscono solo aggiustamenti strutturali ed adeguamenti delle politiche all’economia di mercato.
Gli introiti invece derivanti dai conflitti legati al possesso di risorse sono enormi.
E niente di tutto questo è a vantaggio di una maggiore equità sociale. I numeri parlano chiaro.
Il traffico di diamanti, durante la guerra in Angola, ha fruttato oltre 4 miliardi di dollari.
Irriducibile ad uno schema analitico di tipo eurocentrico,l’Africa sfugge,secondo Sciortino, anche a paradigmi etnici, religiosi o culturali. E, quello che è più assurdo, a ben vedere, nasconde l’esistenza di processi economico-sociali del periodo coloniale.
Abbiamo ancora ben presente quello che è accaduto e forse sta ancora accadendo in Kenya ma la questione dell’”ivorianità”, in Costa d’Avorio, è emblematica.
Quando a partire dal 1999, nel Paese sconvolto da una serie di colpi di stato, il razzismo e l’odio verso chi non fosse ivoriano di nascita vennero fomentati ad arte dalle diverse cerchie al potere ed occorreva trovare un capro espiatorio, lo s’individuò subito negli immigrati del Burkina Faso o della Liberia.
Ma l’Africa è anche terra di saccheggio e di riciclo di prodotti dimessi dal “primo mondo”-sottolinea ancora l’autore di “L’Africa in guerra”. Le armi leggere, per esempio.
Esse costituiscono, data la natura del territorio, un commercio fiorente, alimentato anche dal mercato dell’insicurezza.
Masse di disperati ingrossano le fila della criminalità comune anche in paesi come il Ghana che, ufficialmente, non è mai stato in guerra negli ultimi decenni.
Da dove arrivano le armi?
Dal Sudafrica, ad esempio, con 700 imprese e 25mila addetti. E con la partecipazione di capitali francesi, tedeschi e britannici. Vengono anche dall’Uganda e dall’Egitto. Ma soprattutto sono fornite dalle grandi potenze,Stati Uniti in testa.
Giustificazione di facciata? La lotta al terrorismo.
Gli Usa (si veda l’ultimo viaggio in Africa di Bush) puntano alla fascia settentrionale e saheliana del continente. Con il Marocco infatti hanno firmato un accordo di libero scambio. In Algeria i buoni rapporti con la Nato hanno fatto lievitare la vendita delle armi. La Libia infine ha accordato 11 concessioni minerarie su 15 a compagnie statunitensi. E la cooperazione militare va altrettanto bene.
"Nel continente africano- scrive Sciortino- si è venuto a creare un “sistema economico di guerra”, che coinvolge una parte rilevante di risorse, esseri umani, territorio e settori produttivi. Una strategia che è essa stessa un interesse, che si autoalimenta e che oppone “ chi possiede le armi a quelli che ne sono privi”.
L’intento dell’autore, che attinge a contributi di studiosi del settore come Achille M’Bembe, Elikia M’Bokolo, Anna Maria Gentili e Gianpaolo Calchi Novati è quello di porgere una bussola al lettore ingenuo per potersi orientare nella complessità delle vicende socio-economiche e storico-politiche dell’Africa.
Egli spiega che l’economia di guerra ha propri settori specifici come, ad esempio, il traffico di minerali, quello della gomma e quello del legname. E che le armi sono i mezzi di produzione e la valuta di scambio, che creano regole commerciali e specifici soggetti economici.
Un meccanismo interno ai processi di globalizzazione insomma,che produce guerre devastanti e senza soluzione.
Nel Nord dell’Uganda- prosegue Sciortino- fra la popolazione Karimojong, finchè i conflitti clanici erano regolati con armi tradizionali e tenendo conto dell’autorità degli anziani, il numero di vittime è sempre stato limitato. Quando negli anni ’90 sono arrivati dai 30 ai 40mila AK-47, le cose sono notevolmente cambiate.
Possedere un fucile mitragliatore era diventato un elemento di prestigio economico e sociale. Talora il fucile faceva parte della dote in occasioni di nozze. E,quando la pace non dà più da vivere, la guerra costituisce un’alternativa economica.
Il nuovo quadro politico del continente africano purtroppo negli ultimi tempi ha solo moltiplicato elezioni e democrazie di facciata.Lo vediamo ogni giorno. Le classi popolari non decidono nulla e subiscono solo aggiustamenti strutturali ed adeguamenti delle politiche all’economia di mercato.
Gli introiti invece derivanti dai conflitti legati al possesso di risorse sono enormi.
E niente di tutto questo è a vantaggio di una maggiore equità sociale. I numeri parlano chiaro.
Il traffico di diamanti, durante la guerra in Angola, ha fruttato oltre 4 miliardi di dollari.
Irriducibile ad uno schema analitico di tipo eurocentrico,l’Africa sfugge,secondo Sciortino, anche a paradigmi etnici, religiosi o culturali. E, quello che è più assurdo, a ben vedere, nasconde l’esistenza di processi economico-sociali del periodo coloniale.
Abbiamo ancora ben presente quello che è accaduto e forse sta ancora accadendo in Kenya ma la questione dell’”ivorianità”, in Costa d’Avorio, è emblematica.
Quando a partire dal 1999, nel Paese sconvolto da una serie di colpi di stato, il razzismo e l’odio verso chi non fosse ivoriano di nascita vennero fomentati ad arte dalle diverse cerchie al potere ed occorreva trovare un capro espiatorio, lo s’individuò subito negli immigrati del Burkina Faso o della Liberia.
Ma l’Africa è anche terra di saccheggio e di riciclo di prodotti dimessi dal “primo mondo”-sottolinea ancora l’autore di “L’Africa in guerra”. Le armi leggere, per esempio.
Esse costituiscono, data la natura del territorio, un commercio fiorente, alimentato anche dal mercato dell’insicurezza.
Masse di disperati ingrossano le fila della criminalità comune anche in paesi come il Ghana che, ufficialmente, non è mai stato in guerra negli ultimi decenni.
Da dove arrivano le armi?
Dal Sudafrica, ad esempio, con 700 imprese e 25mila addetti. E con la partecipazione di capitali francesi, tedeschi e britannici. Vengono anche dall’Uganda e dall’Egitto. Ma soprattutto sono fornite dalle grandi potenze,Stati Uniti in testa.
Giustificazione di facciata? La lotta al terrorismo.
Gli Usa (si veda l’ultimo viaggio in Africa di Bush) puntano alla fascia settentrionale e saheliana del continente. Con il Marocco infatti hanno firmato un accordo di libero scambio. In Algeria i buoni rapporti con la Nato hanno fatto lievitare la vendita delle armi. La Libia infine ha accordato 11 concessioni minerarie su 15 a compagnie statunitensi. E la cooperazione militare va altrettanto bene.
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