Nel 1994 decisi di andare a vivere in Costa d'Avorio, a Grand Bassam, a 30 km dalla capitale Abidjan. Un bel posto tra l'Oceano Atlantico e la laguna di Azureti, pieno di zanzare e di giornate senza tempo. Era l'anno in cui in Italia Berlusconi e company andavano al governo e, stufo anche di traffico e della mia noiosa vita romana, pensai che l'Italia era arrivata al capolinea. Non c'ero andato troppo lontano nel mio giudizio visto quello che è successo da quella data ad oggi.
La casa a Grand Bassam l'avevo già bloccata in uno dei miei precedenti viaggi in cui avevo toccato anche il Ghana, il Togo e il Benin, tanto per non farmi mancare niente ed essere sicuro di aver scelto il posto giusto. Non so perchè, ma quel luogo in Costa d'Avorio aveva su di me l'effetto di una calamita. Il motivo lo capii più tardi, quando misi su famiglia. Presi una tipica villetta con giardino, tornai in Italia e racimolai più soldi possibile, chiusi baracca e burattini e, alla venerabile età di 40 anni, senza moglie e figli, dopo aver salutato i miei innumerevoli amici che non capivano la mia scelta e che mi hanno subito tradito e dimenticato, mi trasferei definitivamente in Africa, quella occidentale di lingua francese, a me più consone per le moe precedenti esperienze africane.
Non avrei mai immaginato che di lì a poco mi sarei sposato con una ragazza del luogo ed avrei avuto tre splendidi bambini.
Tranne qualche sporadica collaborazione, abbandonai il giornalismo al 'Messaggero' di Roma per diventare imprenditore, In poco tempo aprii due ristoranti e un ditta srl di import export.
Il primo ristorante in città - lì si chiamano "maquis" - lo aprii con quella che poi sarebbe diventata la mia compagna. La conobbi due giorni dopo il mio trasferimento a Grand Bassam. Anche lei voleva quel maquis, che chiamammo "Balafon" come il tipico xilofono locale, ma non aveva la disponibilità finanziaria. Così mettemmo la voglia di lavorare e i soldi insieme e ci lanciammo nell'avventura. Il menu era misto locale-francese. Per esempio: salsa di arachidi con pollo e riso oppure entrèe de salade, omelette e patatine fritte. Il tutto annaffiato di ottima birra locale.
Il secondo ristorante, invece, all'inizio era solo una striscia di sabbia tra la laguna e il mare: lo chiamammo "Riflesso" e gli demmo un menu all'italiana: pizza, cannelloni e qualche altro piatto tipico della nostra italica terra. Ospitavamo i dipendenti dell'ambasciata, quelli dell'Olivetti, quelli della Pirelli e qualche altro amante della nostra cucina. Si beveva soprattutto buon vino importato. Lì dal niente costruii una specie di stabilimento balneare, un forno ed una casupola color bordeaux, dalla parte del mare. Dalla parte laguna iniziai, invece, senza mai finirli, a costruire dei bungalows. L'affitto del terreno era di circa 70 euro al mese che pagavo a due splendide vecchiette djoula che venivano a piedi a ritirarlo.
Poi mi presi un commercialista ed aprii un srl, regolarissima. Iniziai anche a fare import-export. L'unica spedizione fu un container di corna di bue per fare i bottoni, in collaborazione con un italiano di Gaeta in Uganda, che poi mi dette la solita fregatura italiana finale. I capannoni erano sul porto, vicino all'abbatoir dove uccidevano i buoi. Per me lavorava un simpaticissimo ragazzo musulmano della Guinea, che mi fregava sì ma non troppo.
Tante attività erano possibili proprio grazie al bassissimo costo della manodopera e, comunque, agli inizi, avevo una cospicua rendita finanziaria. Uno stipendio di un cameriere, per esempio, era solo di 40 euro al mese e quello di una buona cuoca di 100.
La mia vita in Costa d'Avorio era praticamente quella di un ricco qui in Italia. Una bella casa, un guardiano del Burkina Faso, tre servitori, un'autista e tutte quelle cose che avevo in Italia, mangiare compreso. In questa terra, infatti, trovavi di tutto, con raccolti quattro volte l'anno. I supermercati avevano tutto - bastava pagare - compreso il parmigiano e il Brunello di Montalcino. C'erano anche i fast food, le patisserie e i caffè.
Come mezzo di trasporto mi presi una "Subaru 4x4 station wagon", ma avrei fatto meglio a prendermi un'eterna "Peugeot".
Poi iniziò la mia avventura quotidiana in terra africana. Sette anni a fare...le stesse cose che si fanno in ogni parte del mondo: mangiare, dormire, lavorare, divertirsi, amare e via dicendo. Mi sto ancora chiedendo di che cosa parlano i missionari nei simposi italiani per farsi belli... . Lì quando parlavi di missionari cristiani, dicevano: "ma quei poveracci che ci vengono a fare qui... ". Altri , invece, sfruttavano le onlus per i loro fini. La povertà, si c'era, come c'è in alcune zone d'Italia, ma era inserita in un contesto più modesto e armonioso. Fra l'altro, la miseria nasceva sempre nel contatto tra il nostro mondo e quel mondo. Non sul luogo.
La vera miseria nasceva, per esempio, nelle piantagioni di banane delle multinazionali francesi ed americane, dove i raccolti erano già degli occidentali ancor prima della semina e dove un contadino veniva trattato alla stregua di una vacca in una stalla. O nelle industrie di tonno o al porto. Una volta mi presentai dal responsabile ivoriano del commercio delle banane per propormi come mediatore per una società italiana di Napoli. Il funzionario mi rise in faccia dicendomi che di banane libere non ce n'era più nemmeno l'ombra e che i soldi se li pappava tutti lui, per fare entrare le navi-frigo di Dole e company, lasciando nella miseria i lavoratori locali... .
Ma nei villaggi e nelle campagne della raccoltà di caffè e cacao, di cui la Costa d'Avorio è uno dei maggiori produttori, la miseria non c'era, perchè ogni contadino aveva qualche ettaro di terra e vendeva i raccolti ai mediatori libanesi che passavano con i sacchi a raccoglierli, per poi rivenderli alle multinazionali della cioccolata e del caffè. I prezzi erano bassi alla fonte, ma almeno erano sicuri, e la terra apparteneva ai locali. Era stata una politica dell'ultimo presidente ivoriano illuminato, Boigny, che era stato anche ministro d'Oltremare in Francia. Dopo di lui, la corruzione portò questo splendido e ricco Paese sull'orlo della guerra civile, dove ne sta uscendo a fatica solo ora.
Per questo nel 2000 sono poi ritornato in Italia, per dare qualcosa di più ai miei figli. Ma sono stato accolto da familiari e amici praticamente come un'extracomunitario clandestino da tenere a distanza. Ma questa è un'altra storia di italica ignoranza che continua ancor oggi ad amareggiarmi.
Ci ho passato sette anni in Costa d'Avorio e forse qualcosa di queste terre ho iniziato a cogliere. Di sicuro non quello che i nostri media riversano nelle menti degli italiani viaggiatori organizzati. Avrò modo di parlarne.
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