"La plurisecolare storia del Regno Unito potrebbe giungere a un punto di svolta: giovedì 18 settembre la Scozia sceglie mediante referendum se diventare indipendente. L’esito è incerto, ma gli ultimi sondaggi mostrerebbero un leggero vantaggio dei “no”.
In un ultimo tentativo di convincere gli indecisi a votare contro la secessione, David Cameron, Ed Miliband e Nick Clegg – rispettivamente primo ministro britannico (conservatore), leader del Partito Laburista e leader del Partito Liberal Democratico – hanno firmato un accordo secondo cui in caso di vittoria del “no” all’indipendenza s’impegneranno a conferire più poteri al governo di Edimburgo.
Il colpo di coda britannico non sarà piaciuto al primo ministro scozzese e promotore dell’indipendenza Alex Salmond. Il premier ha scritto una lettera aperta ai suoi concittadini invitandoli a prendersi la responsabilità di votare “sì”, ora che “il futuro è nelle loro mani”.
Salmond ritiene che una Scozia indipendente sarebbe più ricca del resto Regno Unito e potrebbe gestire in maniera più efficiente le tasse, in particolare quelle legate allo sfruttamento delle risorse energetiche nel Mare del Nord. Il premier ha già proposto il 26 marzo 2016 come possibile “giorno dell’indipendenza”.
Le incognite del “sì”
La secessione della Scozia significherebbe una frattura clamorosae un lungo periodo d’incertezza interna per il Regno Unito, membro permanente del consiglio di sicurezza dell’Onu e potenza nucleare. Dal canto suo la Scozia, non più all’ombra della Union Jack, dovrebbe affrontare una serie di spinose questioni.
Innanzitutto, l’ingresso nell’Onu, nella Nato e nell’Ue. La Scozia dovrebbe fare domanda come ogni altro paese. Procedura dall’esito non scontato. L’ammissione all’Unione Europea, per esempio, potrebbe essere ostacolata da Stati membri come Spagna e Belgio, che devono fare i conti con i rispettivi movimenti indipendentisti.
In secondo luogo, il governo di Edimburgo dovrebbe formare un nuovo esercito. A tal fine ha già proposto un budget militare di 2.5 miliardi di sterline, circa 3 miliardi di euro. Al tavolo negoziale con Londra si dovrebbe discutere il futuro della flotta di sottomarini nucleari britannici che si trova a Faslane che dovrebbe diventare laprincipale base navale della Scozia indipendente. Questa discussione interessa tutta l’Alleanza Atlantica, per cui la Gran Bretagna (e il suo arsenale atomico) è un punto di riferimento.
Inoltre, in caso d’indipendenza Edimburgo vorrebbe creare un’unione monetaria con il Regno Unito e mantenere la sterlina. In questo modo potrebbe prendere le decisioni legate alla valuta insieme alla Bank of England. Uno scenario che Cameron, Miliband, Clegg e il direttore dell’istituto di credito centrale britannico Mark Carney hanno rifiutato.
Per la Scozia l’ipotesi di usare la sterlina senza che vi sia un’unione monetaria avrebbe molti lati negativi, a cominciare dalla totale dipendenza dalle decisioni della Bank of England. Inoltre, senza un proprio istituto di credito centrale il governo scozzese non potrebbe salvare le banche locali qualora siano a rischio fallimento. Sette anni fa, del resto, la Royal Bank of Scotland (istituto di credito privato di cui ora il governo britannico detiene la maggioranza) è stata salvataproprio grazie ai contributi versati dagli abitanti del Regno Unito.
In alternativa, Edimburgo potrebbe coniare una nuova moneta da gestire in base alle esigenze economiche nazionali. Tuttavia, ciò significherebbe fissare nuovi costi di transazione con il Regno Unito e con l’Unione Europea. La valuta potrebbe esporsi a eccessive fluttuazioni, spingendo le società che offrono servizi finanziari a lasciare il paese.
L’ultima opzione è adottare l’euro, ma ciò richiederebbe il già citato ingresso nell’Ue nonché il rispetto di ulteriori criteri economici e giuridici.
Salmond ha affermato che in caso di secessione, qualora il Regno Unito non crei un’unione monetaria, la Scozia potrebbe non pagare la sua parte di debito nazionale. Attualmente il debito pubblico netto (quello totale meno le attività finanziarie liquide del governo) del Regno Unito è pari a circa 1.300 miliardi di sterline (1.600 miliardi di euro), il 76.5% del pil. Ottenuta l’indipendenza, la fetta scozzese dovrebbe superare i 143 miliardi di sterline (179 miliardi di euro).
Infine, Londra ed Edimburgo dovrebbero definire i dettagli dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas nel Mare del Nord. In queste acque fino a oggi sono stati estratti 40 miliardi di barili di greggio; ne rimarrebbero altri 24 miliardi, corrispondenti a 30-40 anni di produzione. Scozia e Regno Unito dovrebbero stabilire i dettagli legati al suo sfruttamento. A cominciare dalla definizione dei confini marittimi. I due paesi potrebbero servirsi del sistema della linea mediana, già usato per stabilire i diritti di pesca dopo la devolution nel 1999. In sostanza, bisognerebbe tracciare un confine di cui tutti i punti sono equidistanti dalla Scozia e dalla linea di costa del resto del Regno Unito. In tal caso a Edimburgo spetterebbe il controllo del 96% della produzione di greggio offshore e del 52% di quella di gas (in base ai dati del 2011). Il governo scozzese afferma che in tal caso le tasse da riscuotere entro il 2018 per lo sfruttamento del petrolio sarebbero pari a 57 miliardi di sterline (71 miliardi di euro). Questa cifra in ogni caso non sarebbe sufficiente per ripagare il debito pubblico del paese.
Un negoziato su simili argomenti sarebbe lungo e complesso.
I movimenti indipendentisti e le critiche della Cina
L’esito del referendum è atteso anche dai paesi dove sono presenti movimenti indipendentisti, come Belgio (fiamminghi), Spagna(catalani e baschi), Turchia (curdi) e Ucraina (filo-russi nell’Est). La vittoria del “sì” potrebbe incoraggiare le aspirazioni secessioniste.
Anche la Cina segue con attenzione la vicenda. Qui alcuni quotidiani - tra cui il Global Times - hanno sottolineato che il referendum è sintomo della forte instabilità del Regno Unito e che la secessione scozzese significherebbe una sconfitta pesante per Cameron.
Qualunque movimento indipendentista è guardato con timore da Pechino, che deve gestire regioni instabili e desiderose d’indipendenza come il Tibet e il Xinjiang. A queste si aggiunge quella di Hong Kong, colonia britannica fino al 1997, cui recentemente il governo centrale ha concesso l’elezione diretta del Chief Executive (il capo del governo locale) tra una rosa di candidati graditi alla leadership cinese. La scelta è stata contestata da una larga parte degli hongkonghesi, che pretendono un sistema politico “genuinamente” democratico in conformità (secondo loro) alla Basic Law, il testo quasi-costituzionale della regione. In seguito, il comitato per gli Affari Esteri del Regno Unito ha aperto un’inchiesta per verificare il rispetto di questo documento e della Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984. L’accordo descrive i termini della restituzione di Hong Kong alla Repubblica popolare e conferisce al governo regionale “un alto livello di autonomia” fino al 2047. Pechino, che considera l’indagine britannica come un’ingerenza nei suoi affari interni, ha approfittato del referendum scozzese per criticare Londra.
(da Limes del 18 settembre 2014)
Ha vinto il no all'indipendenza.
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