"Ieri ne hanno sepolti 385. Sono le vittime del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre. Senza un fiore. Senza una lapide. Senza una cerimonia come si deve. In attesa di un mezzo funerale di Stato, facile da promettere il primo giorno, quello dello sgomento, facilissimo da dimenticare - come hanno fatto Letta, Alfano, la Bonino - due settimane dopo.
Senza più tv. Senza più un Barroso in passerella e nemmeno una Boldrini. In un buio gelido come quello del mare che li ha ingoiati - eritrei e siriani - per restituirli gonfi, a brandelli, senza identità. La fine perfetta di una non storia, fatta di non uomini, di non donne, soprattutto di non bambini. Numeri macinati a caso nello stomaco dell’universo. Scarti. Senza neanche la differenziata.
Cinque di loro, i più fortunati, li hanno tumulati nel cimitero di Sambuca di Sicilia, dove il Comune ha messo a disposizione un pezzo del camposanto. È venuto il sindaco, Leo Ciaccio, e anche una ventina di profughi, la metà dei quali sopravissuti al disastro.
Chi erano i cinque? E chi lo sa. Si sa solo bisognava metterli sotto terra in fretta. Prima che portassero malattie. Appestati. Sono stati i medici a spingere perché si accelerasse. C’è stata anche una cerimonia funebre vera, con tanto di sacerdote. Gli uomini e le donne, vestite a lutto, erano farfalle nere che andavano e venivano in piroette miopi, piangendo connazionali presunti. Qualcuno è anche svenuto, ascoltando la voce stridula di stormi di gabbiani evasi dalle nuvole. Ma almeno c’è stato un canto, un «Dio vi benedica».
A Piano di Gatta, ancora Agrigento, dove le bare sotterrate erano 85, è andato tutto molto più veloce, come se le autorità di ogni ordine e grado avessero paura di venire inseguiti da defunti che non riescono più nemmeno a trovare i vicoli da cui sono venuti. Ma forse erano già fantasmi alla nascita.
Le casse le hanno infilate in cinque cappelle di cemento grezzo. Il guardiano del cimitero ha detto: «Non ne avevo mai viste tante insieme». Non c’erano targhette a distinguerle. Solo numeri. Con un pennarello li hanno segnati sul muro. Qui, a sinistra, ci sono il 6, il 23 e il 98. Chi non li volesse piangere può sempre giocarli al lotto.
Enzo Billaci, che vive da sempre a Lampedusa e fa l’assessore alla pesca, chiede: «Ma che cos’è diventata l’Italia?». Un posto talmente opaco e micragnoso che neppure gli immigrati ci vogliono stare. Rifiutano i riconoscimenti. Sognano di scappare in Svezia. O in Inghilterra. Solo i morti sono costretti a subire. «Quando ho visto le braccia meccaniche della navi portare via a due a due le bare bianche dei bambini, mi si è crepato il cuore. Neanche i container del pesce si spostano così. Mi sono vergognato». Anche il suo sindaco, Giusi Nicolini, si è vergognata. «Non volevano fargli il funerale di Stato? Potevamo fargli almeno noi quello di Paese».
In verità un saluto pubblico, senza bare, senza corpi, senza senso, ma con le bandiere tricolore - «alla presenza dei rappresentanti del Governo e delle istituzioni», recita un bislacco comunicato del Viminale - si farà lunedì 21. Ad Agrigento. Al molo turistico. A posteriori. Per fare finta di avere pietà. «Lampedusa ha rispetto di chi arriva. Vedendo le bare ho pensato a quelli che abbiamo salvato in vent’anni. Migliaia. Chissà se lo stesso rispetto ce l’ha il ministero dell’Interno», sussurra Giusi Nicolini. È stremata. E rimane sul molo con gli occhi bassi per cinque minuti che sembrano cinque ore.
Un po’ di casse le hanno portate a Canicattì. Altre a Caltanissetta. Pochi ignoti fortunati sono finiti nelle tombe private delle famiglie Scolaro e Gelardi. Cittadini qualunque, che hanno pensato: se non lo fa lo Stato lo facciamo noi. Alcuni li hanno lasciati al cimitero di contrada Farello. A Gela. Ad attenderli c’era un prete. E persino un imam. Li hanno seppelliti verso la Mecca. Poco importa sapere se in mezzo ci fossero dei cristiani. «Queste persone sono venute dal mare con la speranza di vivere, ma scappando dalla guerra hanno incontrato la morte, per volontà di Dio e per colpa dell’uomo che ha chiuso le frontiere», ha detto Mufid Abu Taq. E una donna grassa, che respirava con la bocca, esalando un lamento lieve e continuo, all’improvviso si è messa a gridare. Ed è stato come se tutte le urla dei suoi precedenti sessant’anni di vita fossero state solo un allenamento per questa straziante sfuriata". (da La Stampa.it)
Nessun commento:
Posta un commento