venerdì 11 novembre 2011

Ma chi è questo Monti?

Ma chi è questo Monti? Fuori finalmente Berlusconi, si presenta un non eletto diventato improvvisamente senatore, un tecnocrate che alcuni vorrebbero far durare anni, con i soliti noti del Pdl, del Pd che gli stanno dietro le spalle. Nomi impresentabili come Gianni Letta, Lamberto Dini e centinaia di altri che hanno ancora la faccia di proporsi dopo essere stati partecipi di questo scempio. Ma stiamo scherzando? Questo governo tecnico deve avere i giorni contati solo per esprimere una nuova legge elettorale e poi si va subito subito alle urne per scegliersi i propri rappresentanti. Questi, invece, parlano addirittura del 2013 con queste facce di bronzo. Ma tutti dichiaravano solennemente che andavano a messa, come se fosse una benedizione per i loro elettori. Oggi, da un'Italia profondamente cambiata ed attenta, ci aspettiamo ben altro del soliti circo barnum che scimmiotta tutte le sere in una tv imbalsamata, che ha occupato tutto, che non lascia spazi, non lascia speranze. Ci aspettiamo una rivoluzione democratica, quella che ci è stata impedita nelle piazze ma che c'è stata nei nostri cuori vedendo questo mercimonio della nostra democrazia e dei nostri valori. I nostri rappresentanti usciranno dagli elettori del referendum e non saranno i soliti noti. Quindi, per favore, levatevi dalle p. una volta per tutte.

Questo qui sotto sarebbe un possibile tragicomico governo Monti. Ci manca solo il papa come ministro della religione. L'Italia ormai è nelle mani di deficienti.

"Solo dodici ministri. Quelli col portafoglio. Più tecnici che politici. E forse, alla fine, solo tecnici. Con nomi di prestigio, quello di Bini Smaghi, nella poltrona che è di Tremonti, e di Umberto Veronesi, destinatario di una telefonata del Colle, alla Salute. Per dare subito una doppia immagine, di autorevolezza, di austerità, di massimo contenimento dei costi, e di un governo che ha un mandato preciso, salvare l'economia e quindi il Paese. Questo si propone Monti, e questo piace al Quirinale. Ma questo scatena anche, soprattutto nel Pdl (ma non solo), una lotta aspra e a tratti disperata, tra chi sopravviverà del vecchio esecutivo Berlusconi, e chi guadagnerà una poltrona nel governo del secolo Pdl-Pd-Terzo polo.Una condizione, su tutte, ha posto il Cavaliere. Che alla presidenza resti, come vice, l'attuale sottosegretario Gianni Letta. Al momento la sua istanza godrebbe del consenso del futuro premier e di quello di Napolitano. Il possibile ostacolo potrebbe essere di carattere "familiare", se a occupare l'altra poltrona di numero due a palazzo Chigi il Pd dovesse candidare un altro Letta, Enrico, che di Gianni è il nipote. Realistico invece che nel team dei sottosegretari alla presidenza ci sia l'attuale vice capogruppo democratico al Senato Luigi Zanda. Accanto a Enzo Moavero, ex capo di gabinetto di Monti.Sistemato Letta, per Berlusconi si apre il caos sui ministri da riconfermare, con gli ex An in piena rivolta, visto che non solo rischiano di essere esclusi, ma si ritrovano in un governo in cui comanda l'odiato Fini. L'ulteriore incarico per Franco Frattini agli Esteri, Nitto Palma alla Giustizia e Raffaele Fitto agli Affari regionali già ieri cominciava ad apparire improbabile. Potrebbe salvarsi, in quanto di fresca nomina, Annamaria Bernini (Politiche europee). Su Frattini incombe lo "sgradimento" del presidente della Camera, che non si è scordato le dichiarazioni in Parlamento del titolare della Farnesina per la casa di Montecarlo, in cui si prendevano per buone le carte del ministro di Santa Lucia ispirate da Lavitola. Non solo, per la Farnesina è insistente il tam tam sul nome di Giuliano Amato, che però potrebbe tornare al Viminale, da lui retto con Prodi.Dato per certo 24 ore fa, sfuma il possibile reincarico per Palma in via Arenula. Troppo sponsorizzato da Berlusconi, troppo uomo di Previti, nessuna presa di distanza dalle leggi ad personam, grave la decisione di inviare gli ispettori a Napoli e Bari dove sono in corso indagini sul Cavaliere. Nel segno della "discontinuità", su cui insiste il Pd, alla Giustizia gareggia la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro, ma c'è chi avanza il nome di Livia Pomodoro, attuale presidente del tribunale di Milano e capo di gabinetto con Claudio Martelli quando Giovanni Falcone era direttore degli Affari penali.Certa è la new entry di Maurizio Lupi, oggi numero due alla Camera, incerto tra Pubblica istruzione e Infrastrutture. Al lumicino le chance per gli ex An, "indigeribile" per Fini il nome di Ignazio La Russa, scarse possibilità pure per Altero Matteoli. Berlusconi ha spiegato loro che non può garantire un posto per ogni corrente del pdl. Quindi niente per nessuno.In casa Pd, ufficialmente e dallo stesso Bersani, viene smentito qualsiasi toto-ministri. Negata, dall'interessato, anche la voce che Massimo D'Alema avrebbe sollecitato un posto per sé, negatogli perché la sua presenza politica "pesante" potrebbe comportare quella di un Alfano per bilanciarla. Buone chance per l'ex ministro Paolo Baratta, attuale presidente della Biennale, che andrebbe ai Beni culturali. Certo l'incarico per Veronesi che torna alla Salute.Anche Casini rinuncerebbe per questo motivo al suo amico Lorenzo Cesa. Che, se dovesse spuntarla, andrebbe diritto all'Agricoltura, per disfare rapidamente il lavoro fatto dal traditore centrista Saverio Romano. Come tecnico, Casini punta per il Welfare sull'ex leader della Cisl Raffaele Bonanni. La partita è tuttora apertissima. In pista ci sono nomi importanti. Fabrizio Saccomanni, Domenico Siniscalco, ma anche Luca Cordero di Montezemolo e Pietro Ichino. La partita si chiude lunedì". (La Repubblica 11.11.11)

Oggi si parla di un governo tecnico. Ma è un governicchio di vecchi tromboni. Addirittura l'ondivago Bini Smaghi, il solito faccia di bronzo Veronesi, Amato che prende 30 mila euro al mese di pensione, il non vedente Catricalà, addirittura generali alla Difesa, professori cattolici al Lavoro, burocrati con stipendi d'oro. Non ci siamo!!! Possibile che non ci siano forze fresche e di ricambio per dare un soffio di vitalità, giusto per fare la legge elettorale ed andare subito a votare.

"Il conto alla rovescia entra nel vivo. La legge sulla stabilità arriva alla Camera per l’ora di pranzo. Voto scontato come ieri al Senato. Dopodiché l’Italia entrerà in un limbo che il mondo intero ci chiede sia il più breve possibile. Lunedì, infatti, i mercati riaprono. Quello sarà lo spartiacque, la linea di confine per capire quale destino è riservato al nostro paese. A guardar bene la situazione, però, non appare affatto chiara. Sì perché se la road map disegnata giovedì dal Colle aveva una direzione, oggi il futuro di Monti a palazzo Chigi resta in bilico. Tutto si gioca in casa Pdl. Sul fronte opposto, infatti, il Pd segue la strada del Colle, incassa l’ok di Di Pietro e tiene dritta la barra assieme al terzo Polo. Governo Montì sì, ma senza colori politici.Governo tecnico, dunque. Una sorta di protezione civile per la politica italiana. Questa sembra al direzione giusta. Che se sarà tradirà il piano della Lega. Bossi ancora ieri ha ribadito la volontà di un voto anticipato e in second’ordine un governo con maggioranza allargata ma su base di centrodestra. Tradotto: niente Monti, forse Alfano, forse Dini, forse Schifani. Ma tutto resta fumoso. Poche certezze e molti scenari.Questa mattina il presidente dell’Fmi Christine Lagarde ha ribadito il gradimento per Mario Monti, dopodiché ha rilanciato l’ennesimo allarme che ormai suona come una litania: accelerare sulle riforme. Per questo, lex commissario Ue da giorni riflette con Napolitano a un governo di alte personalità. Niente colore politico, ma solo personaggi di alto livello.Sul fronte del totoministro aumentano così le quotazioni di Giuliano Amato al ministero del’Interno. Per gli Esteri, invece, si punta al segretario generale della Farnesina Giampiero Massolo. Alla difesa quotazioni in salita per il generale Mosca Moschini. Poltrona calda, invece, quella della giustizia. Sul ruolo pesano le tante leggi ad personam volute dal Cavaliere. Ora si punta a Ugo De Siervo, l’ex presidente della Corte Costituzionale. Fresco di dimissioni dalla Bce Bini Smaghi potrebbe sostituire Tremonti all’Economia. Anche se resta in piedi l’ipotesi di un interim per Monti. Per Antonio Catricalà, oggi presidente dell’Antitrust, si prepara un ruolo a capo del ministero per le Attività Produttive. Umberto Veronesi risponderebbe sì a un incarico per la Salute. E infine il docente universitario della Cattolica Dell’Arringa andrebbe al Lavoro". (Il Fatto 12.11.11)


Questo qui di seguito sarebbe invece il ritratto di supermario Monti in una vecchia ed unica intervista all'Espresso. Non promette niente di buono.

"Proporre un'intervista sentimentale a Mario Monti è un atto di presunzione che si paga quasi subito. L'uomo è cortese, disponibile, pronto a concedere più del solito notizie su di sé e giudizi sul mondo. Ma a condizione di guidare lui, se non gli argomenti, almeno lo stile della conversazione. E di essere seguito in quella dimensione più alta dove l'Italia si guarda con occhi europei, la politica quotidiana con il distacco del grande esperto internazionale, mentre il linguaggio vigila sulle sfumature e l'understatement è d'obbligo. Il Monti privato somiglia inoltre così tanto al Monti pubblico che è difficile separare il funzionario rigoroso dal marito devoto, l'economista dal padre di famiglia, il presidente della Bocconi dal tifoso del Milan. Ci proveremo con alterne fortune, scoprendo qua e là frammenti di passioni, piccole superstizioni e qualche peccato d'orgoglio.L'ex commissario europeo alla concorrenza che si conquistò il nomignolo di Supermario multando Bill Gates per mezzo miliardo di euro e facendo saltare più volte i nervi a qualche capo di Stato, ci riceve nel grande studio dell'Università milanese che lo ha visto studente, professore, rettore e infine presidente, in un percorso di fedeltà che la dice lunga su di lui. Sono i giorni della disfatta dell'Unione europea sotto i colpi dei referendum e dei mancati accordi, e quasi dispiace cominciare da lì.
Glielo chiedo brutalmente: questa è la fine dell'Europa
No, è solo una gravissima battuta di arresto. Ma spero che sia almeno la fine dell'uso cinico dell'Europa come capro espiatorio».Con chi ce l'ha?«Con il costume, sempre più diffuso, di dare all'Unione la colpa delle carenze nazionali e di usarla spregiudicatamente a fini di politica interna. Non si può, come ha fatto Chirac, parlare per sei giorni contro l'Europa e poi aspettarsi che la domenica i cittadini votino sì alla Costituzione».
Non sta pensando solo alla Francia, vero?
«Vero. Anche in Italia l'abitudine di sparare a zero sull'Europa dà fiato ai filoni più populisti e dà spazio a pericolosi fenomeni di leadership che sono in realtà delle followership, perché seguono e non guidano l'opinione pubblica».
Come prevede che andrà a finire?
«I singoli Paesi si accorgeranno presto che procedendo individualmente nell'arena mondiale, morirebbero anche prima. Sarà quindi lo stesso interesse nazionale a portare alla ripresa del cammino europeo. Intanto però si saranno perduti anni preziosi in un momento in cui l'Europa non poteva permetterselo».
Lo dice con malinconia. Sembra un dolore personale, oltre che un disappunto politico.
«Infatti lo è. I miei dieci anni a Bruxelles sono stati impegnativi e di grande soddisfazione. Nel secondo mandato ho potuto fare una concreta politica della concorrenza, un campo in cui l'Europa ha la capacità e i poteri per decidere. Ho visto paesi come la Germania che, dopo estenuanti resistenze, hanno dovuto abbandonare privilegi vecchi di cent'anni, come le garanzie pubbliche alle banche. E ho gustato la soddisfazione personale di vedere dissolversi la convinzione che a un italiano non potesse essere dato un potere di vigilanza».
Il pregiudizio sulla inaffidabilità italiana ha colpito anche lei?
«Non si arriva con crediti di fiducia da un Paese come il nostro. Quando, nel '94, Berlusconi mi mandò a trovare Santer perché mi conoscesse in vista del mio ingresso nella Commissione, ricevette questa telefonata: "Ah caro Silvio, il suo professor Monti mi ha fatto un'ottima impressione, non sembra neanche italiano". Si rende conto? Lo stava dicendo al presidente del Consiglio italiano».
Dica la verità: avrebbe fatto volentieri un terzo mandato.
«Non l'ho mai nascosto. E' stato anzi l'unico caso in tutta la mia vita in cui sono stato io a candidarmi. Il presidente Barroso aveva dichiarato pubblicamente che mi avrebbe voluto nella sua Commissione e io ero pronto a spendermi per le cose in cui ho creduto e credo».
Ma c'era la candidatura Buttiglione...
«Già. E preferisco pensare che, come mi ha detto Berlusconi, siano state le difficoltà interne a suggerirgli quella scelta e non, come è stato detto da qualcuno, che furono il presidente della Repubblica francese e il cancelliere tedesco a chiedergli espressamente di non riconfermarmi».
Adesso è pronto per incarichi nazionali. Si parla di lei ad ogni sospetto cambio di guardia: ministro dell'Economia, premier, governatore della Banca d'Italia, persino presidente della Repubblica. Ne è gratificato?
«Non sono mica delle offese. Né sono cose da prendere sul serio».
Vuol dire che non le andrebbe?
«Molti mi dicono: "Perché non si candida? La situazione è difficile. Lei sarebbe di aiuto". Io rispondo con due considerazioni. Prima: pur rispettando molto chi fa questa scelta, non entro in politica perché non mi sento di conferire la mia capacità di valutazione - se ne ho - ad altri. Preferisco esercitarla di volta in volta, anche pubblicamente, con il giudizio e la proposta».
Seconda?
«Riguarda il fatto che la merce veramente rara oggi in Italia non è quella di bravi e volenterosi politici, ma quella di persone nei confronti delle quali nessuno possa avere l'alibi di dire: "Non prendo in considerazione quello che dice perché appartiene alla parte X"».
Nell'insieme un bel peccato di narcisismo.
«Può darsi che non manchi questa componente caratteriale, ma le ragioni di fondo sono di principio. Del resto se ho rifiutato degli incarichi è stato perché rifiutavo di far mie decisioni altrui. E' andata così anche ultimamente, quando Berlusconi mi ha offerto il posto lasciato libero da Tremonti».Racconti.«Siamo nel luglio 2004 e vengo invitato a cena a Macherio per discutere la proposta. In una conversazione molto approfondita emerge che io considero prioritario non ridurre l'Irpef mentre il presidente del Consiglio ritiene il contrario. Con molta serenità arriviamo alla conclusione che, per fare un contratto con me, lui non può rompere il suo contratto con gli italiani. Sono convinto che sia necessario essere molto esigenti sulle condizioni in modo che poi, ove capiti, si possano fare le cose bene e con forza».
E a quel punto non piacerà più a tutti.
«E' evidente. Lei lo chiama narcisismo, ma nella situazione particolarmente difficile dell'Italia di oggi può governare bene solo chi non faccia del governo la propria ambizione».
Incarichi a parte, com'è il suo rapporto personale con Berlusconi?
«Di simpatia. Non abbiamo mai avuto difficoltà di dialogo nelle non numerose occasioni in cui ci siamo incontrati. E' una persona di prorompente cordialità».
Non è facile immaginarla mentre, a tavola, ride alle barzellette del premier.
«Ma si sbaglia. Anche se sono incapace di ricordarle e di raccontarle, le barzellette mi piacciono. E Berlusconi ha una vera arte in questo genere. Se poi la mette in mostra con altri capi di governo, non so. Non è il mio girone».
Monti, lei ha fama di impassibilità, ma non risparmia sottotesti. L'ha imparato alla scuola dei gesuiti?
«Al Leone XIII di Milano, dove ho studiato per dieci anni, ho appreso semmai altre capacità. Se ne accorse una volta anche il cancelliere Schroeder che alla fine di un'estenuante trattativa in cui io non potevo concedere ciò che voleva, mi chiese: "Lei ha studiato dai gesuiti? Sì? Ah, ecco perché argomenta, argomenta, argomenta e non concede mai niente"».
Qui invece dovrà concederci un po' di vita privata.
«Proviamo, ma non prometto niente».
Lei è sposato da quasi quarant'anni con la stessa donna. E' stato anche il suo primo amore?«Sì, e non intendo parlarne».
Perché no? In fondo lei è persona dalle molte monogamie.
«Questa è una definizione che mi piace. E' vero: la Bocconi, l'Europa, il "Corriere della Sera", sento il valore della continuità. Neanche Gianni Agnelli riuscì a convincermi a scrivere per "La Stampa". Gli dissi: "Vedrà che verrà prima lei al "Corriere". E poco dopo infatti lo comprò».
Che figlio è stato, professore?
«Del tutto normale, cresciuto nel rispetto verso un padre direttore di banca con una schizzinosa distanza dalla politica e una madre che aveva la dote dell'allegria. Non ho ripreso da lei, purtroppo».
Non sembra triste.
«Ma non sono neanche allegro. Non ho il dono della convivialità splendente. Può immaginare quanti 'dinner speech' ho dovuto fare in tutti questi anni e in tutti i Paesi del mondo. Ogni volta è stata una piccola fatica».
Ha intenzione di raccontare sessant'anni di sobrietà? Rintracci almeno un attimo di irrequietezza. Anche lei sarà stato adolescente.
«Un po' tardivo, per la verità. Non ero precoce da nessun punto di vista. Studiavo, ero appassionato di ciclismo e passavo molte notti ad ascoltare la radio ad onde corte. L'ho fatto per anni».
Le serviva per evadere?
«No. E' stato utile un po' per conoscere le lingue e molto per capire il mondo. Ascoltavo trasmissioni dall'Australia, dai Paesi dell'Est e dall'Africa. Nel 1958 ho capito da parole in codice che era scoppiata la ribellione in Algeria. Nel 1960 ho sentito in diretta il discorso di insediamento di John Kennedy».
E' nata lì la sua vocazione sovranazionale?
«In parte. Quando ho avuto 16 e 17 anni mio padre mi ha anche portato qualche settimana in Urss e poi negli Usa. Voleva che mia sorella ed io ci facessimo un'idea personale delle due potenze».
Funzionò?
«Sì, anche se mi procurò un piccolo infortunio con i gesuiti del mio liceo. Avevo apprezzato il sistema scolastico russo e lo avevo onestamente raccontato in un articolo per il giornalino "Giovinezza nostra". Poco dopo mi arrivò una lettera del padre rettore: mi spiegava che aveva cestinato lo scritto perché avevo avuto un approccio ingenuo verso un sistema pericoloso sul piano etico. Lui aveva ragione, ma avevo ragione anch'io e strappai la lettera in un impeto di rabbia».
Ha visto che abbiamo scovato un piccolo gesto di ribellione. Continuiamo?
«Non credo che troverà altro».
Il suo primo incarico universitario è stato alla facoltà di Sociologia di Trento. Era il 1969 e molti suoi coetanei erano nel movimento. Lei partecipò?
«Ero un docente e mi comportavo come tale. Capo del movimento era Marco Boato e ricordo che il primo giorno lui e altri leader studenteschi, che davano del tu ai docenti, dissero quasi incidentalmente: "Ah, naturalmente faremo l'esame politico a ognuno di voi". Quella notte non ho mica dormito».
Come andò l'esame?
«Non lo feci. E in fondo anche Trento è stata un'esperienza interessante. L'anno dopo mi spostai a Torino e in seguito alla mia amata Bocconi, che è stata la cosa più importante della mia vita professionale».
Professor Monti, lei crede in Dio?
«Sì, ma lo considero un fatto importante per me, non un elemento di identità pubblica».
Con i tempi che corrono questa è una grande risposta. Come si è schierato nel dibattito intorno alle radici cristiane dell'Europa?
«Non l'ho considerata una questione decisiva. Nelle Costituzioni le parti declaratorie sono importanti, ma il fatto che l'Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro garantisce forse la piena occupazione? Nell'Europa dei Trattati c'è già valore etico, non solo mercato. Lo ha capito anche la Conferenza episcopale polacca».
A cosa si riferisce?
«Alla visita che una delegazione presieduta dal cardinale Glemp fece a Bruxelles nel 1996. Volevano decidere quale posizione prendere per orientare il governo polacco sull'ingresso o meno nell'Unione. Pensavano che l'Europa fosse solo roba di mercato, monete e banche».
Non è così?
«E' anche così, ma dietro quella moneta e quel mercato c'è la possibilità di ristabilire un rapporto eticamente corretto tra le generazioni successive. Io spiegavo il caso Italia dei decenni scorsi, Paese che si proclamava guidato da istanze etiche, cattoliche, marxiste o un misto di entrambe, ma che primeggiava nell'imbroglio sistematico verso i propri figli caricandoli di debiti prima ancora che nascessero».
A proposito di figli, lei ne ha due ormai adulti. Che padre ricorda di essere stato nella loro infanzia?
«Un padre non abbastanza presente, persino a sentir loro che, come tutti i ragazzi, potevano essere più infastiditi dall'eccesso di attenzioni che dall'assenza».
Siamo alla fine, professore, e mi viene in mente che un suo collaboratore avrebbe detto: «Sono di quelli che l'hanno visto ridere». Non mi spiego più la battuta: lei oggi ha riso parecchie volte.
«Un po' troppe in realtà, forse mi sono distratto. Ma vuole sapere una cosa veramente ridicola sul mio conto?».
Certo.
«Ho paura dei gatti neri che attraversano la strada. Specie se provengono da sinistra. Non me ne chieda la ragione, ma è così».
E quando accade che cosa fa?
«Mi fermo e aspetto che qualcuno, passando prima di me, si prenda il carico di irrazionale sfortuna di quel povero gatto». (Stefania Rossini-L'Espresso)

"Nel 1989, a soli 46 anni, un’età da ragazzino per la gerontocrazia italiana, Mario Monti sedeva già nel consiglio di amministrazione di tre pilastri del capitalismo nazionale come la Fiat, la Banca Commerciale (Comit) e le Assicurazioni Generali. Se poi davvero questo professore dal sorriso mite e il curriculum sterminato riceverà il via libera del Parlamento, l’Italia sarà il primo Paese al mondo ad avere un capo del governo che fa parte allo stesso tempo del comitato esecutivo della Trilateral e del Bilderberg group, considerati come due superlobby globali più influenti di stretta osservanza liberista. Detto questo, pare quasi banale affermare che il successore di Silvio Berlusconi è da sempre ospite gradito nei salotti della grande finanza.In realtà, il nuovo premier non si è mai ridotto a fare da semplice stampella dei cosiddetti poteri forti tanto evocati, spesso a sproposito, nelle ultime settimane. Troppo abile per farsi coinvolgere. Troppo prudente per entrare in conflitto con qualcuno. Va da sé che il rettore della Bocconi (1989-1994) e poi presidente del consiglio di amministrazione della più prestigiosa università economica del Paese, diventa una specie di icona intoccabile. Un nome che dà lustro a consigli di amministrazione, associazioni, centri di ricerca. E allora chi s’azzarda a non dirne più che bene? Scontato. Monti però ha fatto di meglio. E di più. Smussare gli angoli. Attutire contrasti e polemiche. Queste le regole auree di una brillantissima carriera prima da economista e poi anche da tecnocrate al servizio dell’Unione europea dove è stato commissario tra il 1994 e il 2004.E così adesso riesce difficile collocare Monti in un’ideale mappa dei poteri forti del capitalismo. Come responsabile della concorrenza della commissione Ue, non esitò a portare alla sbarra il governo di Berlino con l’accusa di aver elargito aiuti pubblici illegali per miliardi di euro alle casse di risparmio tedesche. Vinse la partita, ma si attirò i sospetti di chi lo accusava di tutelare più del dovuto gli interessi della City di Londra ai danni del blocco finanziario renano. Ironia della sorte, adesso c’è chi va raccontando che lo sponsor principale del nuovo capo del governo di Roma sarebbe proprio la Germania di Angela Merkel. A dire il vero, nel recente passato gli applausi sono arrivati soprattutto da Londra. Non per niente il britannico Financial Times, sempre così severo con Romano Prodi ai tempi della sua presidenza della Ue, ha invece usato i guanti bianchi con l’altro commissario italiano.Il fatto è che in quarant’anni di carriera all’ombra di santuari del capitalismo, l’ex rettore della Bocconi è stato bene attento a non farsi cucire addosso una targa di appartenenza. Con Carlo De Benedetti, editore del gruppo L’Espresso-Repubblica, nonché tessera numero uno del Pd, in passato non c’è mai stata grande affinità, nonostante le reciproche attestazioni di stima. D’altra parte l’uomo che ha preso il posto del Cavaliere rappresenta quanto di più lontano si possa immaginare dal berlusconismo. Temperamento e cultura lo rendono di fatto un alieno rispetto al mondo Fininvest. Porte sbarrate? Macché. Le comuni origini varesine legano Monti a Bruno Ermolli, uno dei più ascoltati consulenti di Berlusconi. E con ogni probabilità proprio Ermolli, nei giorni concitati che hanno preceduto la caduta del governo, ha giocato un ruolo importante per convincere il presidente a lasciare campo libero al nuovo esecutivo tecnico.Adesso, da presidente del Consiglio, il cattolico Monti ha buone carte da giocare anche con il Vaticano. In passato, però, l’ex commissario europeo non ha mai fatto un passo verso la finanza bianca, lo schieramento idealmente guidato dal presidente di Intesa, Giovanni Bazoli. Anzi. La sua carriera si è in gran parte svolta all’ombra dei Palazzi della borghesia laica milanese, un triangolo che comprende Comit, Bocconi, Corriere della Sera, il quotidiano di cui è editorialista da oltre 25 anni. Non solo Milano, però. Amico personale di Giovanni Agnelli, nel 1988 Monti venne chiamato nel consiglio di amministrazione della Fiat. Anni durissimi, quelli, per la multinazionale dell’auto, scossa dalla battaglia tra Umberto Agnelli, fratello dell’avvocato, e l’amministratore delegato Romiti. Peggio: i bilanci grondavano debiti e perdite. Le irregolarità nei bilanci di quegli anni portarono, in piena Tangentopoli, a un processo conclusosi nel 1997 con la condanna di Romiti, poi revocata nel 2009. Monti, che era anche nel comitato esecutivo dell’azienda, lasciò l’incarico nel 1993. Fu solo una parentesi, perché la grande passione, anche accademica, del professore bocconiano sono sempre state le banche.Già nel 1982, da presidente di una commissione di nomina governativa (ministro Nino Andreatta) formulò una proposta di riforma del sistema creditizio. In quel periodo Monti era già approdato come consulente all’ufficio studi della Comit dove stringe un sodalizio con il banchiere Sergio Siglienti, il cugino di Enrico Berlinguer, pupillo del padre padrone dell’istituto Enrico Mattioli, erede della tradizione laico-azionista che per decenni ha dettato legge nella banca di piazza Scala. Siglienti farà carriera fino a diventare presidente, ma se ne va nel 1994 in polemica con l’allora numero uno dell’Iri Romano Prodi che con una privatizzazione mal gestita aveva di fatto consegnato la banca nelle mani della Mediobanca di Enrico Cuccia. Anche Monti, che era semplice consigliere d’amministrazione, dopo essere stato vicepresidente tra il 1988 e il 1990, preferì fare le valigie. Di lì a poco il rettore della Bocconi spiccò il volo verso Bruxelles, su nomina del primo governo Berlusconi, e non entrò mai più nel consiglio di amministrazione di una società italiana. Non si sono mai interrotti, invece, i suoi editoriali sul Corriere della Sera. Tutti pacati, prudenti, equilibrati. Manco a dirlo". (Il Fatto Quotidiano)

Nessun commento: