"Aljazeera tenta di rilanciare la propria credibilità con un servizio sullo sfruttamento della manodopera straniera in Qatar. Sembra un passo coraggioso e azzardato per il network dell’Emiro, un tentativo esplicito di affermare la propria imparzialità facendo credere di rivolgere verso il suo paese di appartenenza lo stesso occhio critico con cui ha documentato finora il resto del mondo.
Dal servizio di Gerald Tan “Migrant worker rights under scrutiny in Qatar” si capisce come in realtà sia tutto molto controllato e prudente. Sono più le notizie omesse che quelle date. Vengono accennati i problemi per il visto, le condizioni abitative disagiate, la mancanza di una rappresentanza sindacale, ma non si parla del regime legislativo a cui sono sottoposte queste persone, che non hanno nessuna tutela né possibilità di integrazione.
Il ministero per la Pianificazione urbana ha oggi formalmente vietato ai single workers di vivere nelle zone residenziali della capitale Doha. I lavoratori indiani che con qualche sacrificio si stringevano dentro una casa in una zona residenziale, ora potranno solo abitare nei campi di lavoro costruiti per loro fuori Doha. Questa legge è stata motivata dicendo che le famiglie qatarine si sono spesso lamentate della loro presenza per ragioni di sicurezza. Le multe per i trasgressori arrivano a 10mila euro, e raddoppiano in caso di recidiva. Questa è solo una delle leggi discriminatorie a svantaggio degli operai in Qatar.
Gli operai e la manodopera asiatica sono banditi da alcune parti della città, per cui in ogni centro commerciale e nel souq Waqif, il mercato principale dove i qatarini vanno a fumare il narghilè la sera, vi sono poliziotti e membri della security per garantire che gruppi di indiani e filippini non entrino. Si dice che è un family day, che entrano solo le famiglie, ma gli uomini occidentali entrano senza problemi anche non accompagnati da eventuali consorti.
Il Qatar ha ghettizzato questi lavoratori asiatici in una periferia non ben identificabile in mezzo al deserto da cui non possono entrare né uscire se non con i pullman del governo. Costretti a turni di 12 ore con temperature prossime ai 50 gradi e a spostamenti di un paio di ore al giorno tutti i giorni per raggiungere i cantieri, questi lavoratori vengono discriminati anche a livello salariale: a parità di mansioni un tedesco e un indiano avranno stipendi diversi.
Il paese di fatto vive in uno stato di paura e di razzismo. Razzismo perché il colore della pelle è ancora determinante in questa parte del mondo, perché la nazionalità ancora coincide con uno status sociale e addirittura con un lavoro. Per cui se sei un indiano in Qatar anche vestito con camicia e gemelli di mont blanc, verrai trattato con sospetto e dovrai conquistarti il rispetto e l’attenzione di ogni interlocutore.
Anche nel caso in cui sposassero una donna qatarina, né loro, né i figli sarebbero qatarini. Sei straniero e rimani straniero, non vi è integrazione possibile. Questi lavoratori spesso risiedono nel paese da decenni, alcuni vi sono nati, ma non avranno mai la cittadinanza perché non saranno mai considerati uguali agli autoctoni.
Paura perché si ha il terrore di perdere il controllo su questa massa di persone che rappresenta l’80% della popolazione complessiva, una fetta immensa che potrebbe prendere il sopravvento se non viene accerchiata e ghettizzata. Non si vuole una contaminazione, né un’invasione: li vogliono nei cantieri, ma non per le strade e nei centri commerciali: devono costruire gli stadi e gli alberghi necessari per i Mondiali 2022, considerati una conquista internazionale miliardaria, anche se ora sembra il maggiore imbarazzo dopo che il rappresentante Fifa del Qatar è stato cacciato dall’associazione in seguito a un’indagine per corruzione.
Raccontare questa realtà così vicina e accessibile per Aljazeera con base a Doha come se fosse una novità rende il network dell’Emiro ridicolo oltre che poco credibile. Lo spettatore si sente preso in giro più che informato vedendo un servizio in cui la priorità palese è di ordine interno ad Aljazeera e non documentare con onestà una chiara violazione dei diritti umani". (Limes)
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