"Il mare è anarchico per definizione. Malgrado i tentativi di regolamentazione in punto di diritto internazionale, nelle acque vige la legge del più forte, o del più scaltro. Non c'è bisogno di essere una grande potenza per fare i comodi propri in un determinato specchio di mare. Anzi, i paesi leader della geopolitica globale, con le loro flotte supermoderne, vengono facilmente umiliati da bande di criminali locali. Sono i pirati del XXI secolo, spesso marinai improvvisati a caccia di prede facili nelle acque di casa, che conoscono come le loro tasche. Un fenomeno in via di intensificazione negli ultimi anni, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale e nel "collo di bottiglia" strategico dello Stretto di Malacca, rotta fondamentale per il rifornimento di petrolio mediorientale ai giganti estremo-orientali. Un'altra area critica, più vicina a noi - alle nostre memorie coloniali e ai nostri interessi attuali - è quella del Golfo di Aden. Un'ampia porzione dell'Oceano Indiano, di oltre 600 mila miglia quadrate, su cui da tempo si è concentrata l'attenzione delle Marine occidentali, e non solo, interessate a proteggerlo dai pirati. La disinfestazione è peraltro impossibile. Manca un sufficiente grado di cooperazione fra le marinerie internazionali. E anche se ci mettessimo tutti a remare nella stessa direzione, occorrerebbero almeno cinquecento navi da guerra per controllare uno spazio marittimo tanto esteso. Dopo la tragica conclusione del blitz delle teste di cuoio francesi per liberare cinque ostaggi dei pirati a 60 miglia da Aden, e mentre nelle stesse acque resta in bilico il destino del mercantile americano Maersk Alabama, l'attenzione dei media si concentra sui nuovi Sandokan. I quali non somigliano affatto all'eroe salgariano. I jin ("diavoli") che dalle coste somale si lanciano con i loro barchini veloci a caccia delle prede e del relativo riscatto, spingendosi financo all'arrembaggio di petroliere che navigano a 300 miglia dalla costa, sono figli dell'interminabile guerra che sta sconvolgendo la Somalia da un paio di decenni e dell'instabilità permanente nel Corno d'Africa.
Come hanno scritto acuti analisti del fenomeno, quei pirati "con il mare hanno poco a che fare, l'arte della navigazione l'hanno imparata per necessità". Si tratta infatti di "un variegato manipolo di pastori o mercenari al soldo dei locali signori della guerra. Abitano case di paglia e fango, bevono latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare Internet e i sistemi satellitari di rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti internazionali da Nairobi a Dubai che consentono loro di riciclare il denaro degli abbordaggi".Le loro basi sono concentrate nella regione somala del Puntland - proclamatosi "repubblica" indipendente nel 1998 - in particolare attorno al porto di Bosaso. Terre devastate, "buchi neri" geopolitici contesi da bande armate, per le quali saccheggio e pirateria sono le principali risorse economiche. Secondo alcuni studiosi, si sarebbe creata una sorta di intesa con gruppi jihadisti operanti nel Corno d'Africa, che puntano a colpire gli interessi occidentali. Ma nell'intreccio dei conflitti locali e regionali è molto arduo assegnare etichette definitive a questo o quel signore della guerra e alle sue milizie terrrestri e marittime.Più in generale, le scorrerie dei briganti nell'Oceano Indiano o nel Pacifico - ma se ne trovano ormai quasi ovunque - segnalano quanto arduo sia difendere la sicurezza dei mari, estesi per il 70% circa della superficie planetaria. Incardinati sulle nostre terreferme, tendiamo a dimenticare che la gran parte dei traffici commerciali d'ogni genere passano per vie d'acqua. Grazie ai costi relativamente bassi (finora, ma la pirateria è destinata ad alzarli, non fosse che per la componente assicurativa), alla facilità del trasporto e - non ultimo - all'impossibilità di verificare davvero che cosa portano le navi, spesso battenti bandiere di comodo e con equipaggi non identificabili. Per questo è facile immaginare che la pirateria, comunque travestita, abbia davanti a sé un futuro luminoso... . (Lucio Caracciolo-Limes)
Aggiungo un bell'articolo sull'argomento apparso su www.agoravox dik Mazza: "
Il sequestro di una nave italiana con alcuni marinai italiani a bordo, ha riportato sui nostri media l’attenzione per i pirati. Un’attenzione selettiva, perché pur essendo somali, della Somalia si parla pochissimo, nonostante sia da anni teatro di tragedie che fanno impallidire terremoti e altre disgrazie. Ma nel nostro paese c’è poco interesse per il destino dei poveri, a maggior ragione se sono negri: migliaia di migranti muoiono da anni nei nostri mari senza suscitare la minima commozione, mentre il governo si fa sempre più ostile nei loro confronti. Lo dimostra la prima storia di mare, quella di uno dei tanti barconi affondati tra la Libia e la Sicilia agli inizi di aprile. Si parlò allora di quasi duecento dispersi in un naufragio, ma la notizia venne passata insieme al “salvataggio” di un altro barcone stracolmo di gente da parte della nostra marina. Tutto vero, ma i “dispersi” che fine hanno fatto? I dispersi sono diventati ufficialmente morti pochi giorni dopo, nel numero esatto di duecentotrentasette. Numero esatto perché nonostante un diffusa convinzione contraria, ciascun migrante ha un passato, una storia, famiglie che non vedrà più e che ora lo piangono.In televisione e sui giornali abbiamo visto il salvataggio, la notizia della strage, invece, è passata quasi inosservata, nessuna immagine degli oltre cento cadaveri spiaggiati in Libia dopo la disgrazia, nessuna commozione o riflessione. Quel naufragio ha fatto da solo lo stesso numero di vittime del terremoto dell’Abruzzo, ma diversamente dal terremoto, naufragi come questo si ripetono con frequenza regolare e impressionante. I sopravvissuti a quel naufragio sono stati raccolti, rinchiusi in un carcere (!), curati alla meno peggio e poi rispediti via. Il ministro dell’interno Maroni si è vantato dell’espulsione di ben quarantuno migranti nell’ultima settimana; una soave presa per i fondelli, visto che in una settimana, solo dalla Libia, ne arrivano a centinaia e ancora di più considerando che i disperati che tentano la traversata sono una frazione ridicola dai migranti che giungono nel nostro paese attraverso strade meno pericolose. Propaganda e severità che servono solo a ingannare quegli elettori che i migranti non li possono vedere, propaganda e severità assassine, che negli ultimi anni hanno provocato la morte di migliaia di persone solo in quel braccio di mare. Per loro, questo paese tanto solidale e intriso di tanta umanità e virtù cristiane, non ha organizzato nemmeno un funerale o una cerimonia in ricordo. Nemmeno Bruno Vespa ha voluto fare audience con il racconto del naufragio, delle lunghe ore passate in mare aggrappati a un pezzo del relitto o inquadrando il loro dolore. Il mare è una dimensione purtroppo sconosciuta a gran parte dell’opinione pubblica, solo chi è andato per mare può avere la percezione di cosa significhi nei fatti quella traversata, con quelle imbarcazioni tanto cariche. Anche la Somalia è una dimensione sconosciuta, così finisce che le storie della Somalia ce le raccontano come ci raccontano quel che accade nel Canale di Sicilia. Ieri i due maggiori quotidiani del paese ci raccontavano due storie diverse, anzi tre, partendo dall’unico sequestro di un rimorchiatore italiano. Lucio Caracciolo scriveva su La Repubblica, citando altri, che quei pirati “con il mare hanno poco a che fare, l’arte della navigazione l’hanno imparata per necessità”. Sono “un manipolo di pastori o mercenari al soldo dei locali signori della guerra. Abitano capanne di fango, bevono latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare internet e i sistemi satellitari di rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti internazionali da Nairobi e Dubai che gli consentono loro di riciclare i soldi il denaro degli abbordaggi”. Un classico esempio di svalutazione dell’altro, notoriamente inferiore e che vive ancora nelle capanne, salvo qualche furbastro che, incredibile, è capace di usare computer e telefonini. La questione del riciclaggio dei riscatti poi è del tutto insussistente, visto che il denaro dei riscatti è diviso tra molti e che in Somalia non c’è nessuno che controlli e punisca chi è in possesso di denaro proveniente da imprese criminali.Il Corriere della sera invece descriveva, con Alberizzi, una struttura professionale. I pirati parlano inglese e sono preparatissimi, quasi sbilanciato all’opposto, mentre con Guido Olimpio si premurava di raccontarci che i pirati si sono alleati con gli islamisti radicali, i “terroristi” affiliati ad Al Qaeda. Ipotesi che Olimpio veicola da tempo, ma che si scontra con una realtà per la quale i pirati rincorrono i soldi e non hanno mai fatto uno straccio di comunicato politico vagamente accostabile alla retorica degli “islamici”, o praticato atti ascrivibili in qualche maniera a quel genere di “terrorismo” che il Corriere della Sera cerca di propinare da anni. In questo senso è coerente elevarne lo status, così da renderli più minacciosi e credibili come parte del big complotto musulmano.In realtà un messaggio politico i pirati lo hanno lanciato per bocca dei leader locali delle cittadine e dei clan associati nella pirateria; lo hanno lanciato già molto tempo addietro, ma il messaggio non è piaciuto e allora quasi nessuno si è incaricato di trasmetterlo alle opinioni pubbliche occidentali. Dicono i somali che la pirateria nasce di necessità e che i pirati sono i pescatori somali rimasti senza lavoro. Non per colpa della crisi e nemmeno per colpa delle guerre, ma per precise responsabilità nazionali e internazionali.La comunità internazionale non ha alcuna influenza in Somalia, che da anni vive di riflesso le sole iniziative politiche americane. Invasa da Bush padre a fine mandato con una missione “umanitaria” (alla quale l’Italia si accompagnò coprendosi di disonore), invasa ancora dall’Etiopia su mandato di Bush figlio, contro i “terroristi”, la Somalia è rimasta per oltre quindici anni senza governo. Ora ne sta mettendo insieme uno a fatica, quello cacciato dagli invasori etiopi un paio d’anni fa, che si trova però a dover combattere con i “veri” estremisti fanatici islamici, cresciuti e fortificati proprio nella resistenza all’invasore etiope, un altro grande successo strategico della War On Terror. Che al Corsera non abbiano ancora smesso di cercare d’infilare Al Qaeda dappertutto è stucchevole prima che ridicolo, tanto più che dal Dipartimento di Stato la signora Clinton parla esplicitamente dei pirati come di “criminali comuni”, escludendo matrici terroristiche, mentre a Via Solferino rimangono nella trincea di una guerra che non c’è più come i famosi giapponesi dimenticati nelle isole del Pacifico. Forse a Olimpio è sfuggito pure che il Dipartimento di Stato ha anche annunciato ufficialmente che non si parlerà mai più di “War on Terror”. Negli ultimi quindici anni nessuno ha controllato le acque territoriali della Somalia, che così sono state invase fin sotto costa dai pescherecci dei paesi industrializzati prima e dai rifiuti dei paesi industrializzati poi. Immondezzaio internazionale, la Somalia era la destinazione preferita dei rifiuti tossico-nocivi quando ancora aveva un corrottissimo governo. Quando questo è caduto ed è diventato troppo pericoloso raggiungere l’entroterra somalo per seppellirli, si è presentata la possibilità di buttare direttamente in mare i rifiuti nelle acque somale. Tragicamente più economica e priva di rischi, mancando qualsiasi autorità marittima somala e la legittimità di altre marine all’intervento.Non basta. Quando si verificò lo tsunami nell’Oceano Indiano, l’onda arrivò anche in Somalia. Arrivò inattesa, ore ed ore dopo che per i media di tutto il mondo lo tsunami era diventato la notizia del giorno. Nessuno pensò neppure di avvertire i somali, decine di enti e istituzioni monitoravano la situazione, ma l’onda arrivò inattesa a portarsi via qualche centinaio di somali. Dietro l’onda i più sfrontati operatori del settore buttarono a mare tutto quello che avevano, l’attenzione era altrove e in caso di guai sarebbe stata colpa dello tsunami. I villaggi dei pescatori somali senza pesce, si sono ritrovati pure con mare e acque inquinate dal peggior cocktail di rifiuti industriali del mondo, non diluito neppure dall’immensità marina. Migliaia di abitanti delle coste somale oggi muoiono e soffrono di malattie da contaminanti che in teoria nel paese non esistono nemmeno; non ci sono le industrie, ma ci sono le malattie dell’inquinamento industriale. Malattie là sconosciute e incurabili, data la condizione del paese. Nessuno nella “comunità internazionale” ha mai pensato di soccorrere quelle persone e nemmeno di proteggere le coste somale dai pescecani stranieri, si fa la faccia feroce contro il sintomo, la pirateria, mentre si è complici del diffondersi della malattia. Così al popolo dei pescatori non è rimasta che la pirateria, ma i leader somali l’hanno detto da tempo a una sola voce: ridateci il nostro mare e il nostro pesce, lasciateci formare un governo che non sia deciso altrove e la pirateria sparirà. Una voce che non ci hanno trasmesso o che non vogliamo ascoltare, preferendo storie ridicole dei pirati che vivono nelle capanne di fango, di feroci terroristi e altre amenità in ordine sparso. Nella realtà i pirati somali non uccidono, non praticano violenza gratuita, non diffondono video di prigionieri decapitati e in genere trattano abbastanza bene i marinai catturati nei lunghi mesi di prigionia. Nessun fanatismo, solo un business alternativo, l’unico praticabile. Tutto abbastanza comprensibile, chiunque nei panni di un uomo al quale hanno rubato il mare, unica fonte di sostentamento, farebbe un pensierino alle migliaia di navi che trasportano l’opulenza mondiale passando davanti a casa sua. Per questo la pirateria somala gode del consenso popolare, per questo intere cittadine sono solidali e collaborano con i pirati nell’unico business praticabile.Ci vuole una discreta abilità marinaresca per spingersi per centinaia di miglia nell’Oceano Indiano a bordo di piccole imbarcazioni e, dopo giorni di navigazione molto pericolosa, ad abbordare, con funi e rampini, navi molto più grosse se non enormi, ma è così che i somali vanificano i pattugliamenti internazionali. Ci sono alcune decine di navi da guerra di diversi paesi nell’area, ma parliamo di una zona di un milione di chilometri, per pattugliare la quale sarebbero necessarie trecento navi a detta degli esperti, dove ce ne sono cinquanta da diversi paesi. L’intera flotta statunitense ne conta duecentocinquanta, numeri troppo spesso ignorati da quanti invocano la mano pesante dal pulpito dell’ignoranza, i fan della repressione come rimedio universale a tutti i mali.Così i sequestri si susseguono e ogni abbordaggio ha la sua storia; c’è la nave carica di armi per i nemici del governo sudanese, c’è la petroliera immensa e ci sono centinaia di navigli catturati più o meno a caso. Ci sono quelli nel Golfo di Aden, che attaccano il transito per il Canale di Suez dalla Somalia e dallo Yemen, dove centinaia di migliaia di somali hanno cercato rifugio con una pericolosa traversata simile a quella dalla Libia all’Italia. Poi ci sono quelli nell’Oceano Indiano che attaccano la rotta attorno all’Africa, come nell’abbordaggio recente alla nave americana, colta per caso al largo da quattro somali impegnati nel lungo rientro a casa dopo aver accompagnato una nave sequestrata nella sua liberazione al largo. Attacco improvvisato e risultato pessimo, l’equipaggio ha reagito e la situazione è andata in stallo, risolta solo dal capitano che si è offerto in ostaggio. Ora la nave è al sicuro in Kenya, mentre i quattro somali e il capitano sono rimasti a bordo di una scialuppa di salvataggio della stessa, che procedeva lentamente verso la Somalia senza nessuna speranza di arrivarci, tenuti d’occhio dalla USS Bainbridge, un incrociatore americano che a bordo ha armi a sufficienza per distruggere una città o mettere in fuga un esercito. Le trattative si sono arenate sulla pretesa americana di arrestare i pirati. Lo stallo si é risolto con un’azione di forza: tre pirati sono morti e il capitano è salvo. Simile l’approccio dei francesi, che hanno “liberato” una barca da diporto sparando, con il risultato di uccidere uno degli ostaggi. Sarkozy cercava lo spot a buon mercato e l’ha trovato mettendo in gioco le vite di una famiglia che aveva scelto la barca per fuggire dalla civiltà, con un naviglio commerciale non se lo sarebbe potuto permettere. C’è da scommettere che i familiari “liberati” del morto avrebbero preferito il pagamento del riscatto. Molti di quanti invocano l’intervento armato non hanno la minima idea della situazione sulla quale si esprimono, per alcuni sarebbe anche plausibile attaccare le città della costa per stroncare il fenomeno, Sarkozy è solo uno dei tanti che cerca di costruirsi l’immagine del decisionista. Il sequestro dei nostri connazionali, dovrebbe invece risolversi con il versamento del riscatto, vista la tradizionale avversione italiana all’intervento di forza e le esperienze pregresse. Decine di casi confortano questa previsione.Resta lo sconforto per lo stato dell’informazione nel nostro paese e ancora di più per il desolante approccio dei governi occidentali verso gli abitanti dell’ultimo mondo. Si raccontano favole e si diffonde propaganda sulla pelle degli ultimi, fidando sullo stesso velato razzismo che ci porta ad ignorare le stragi di migranti in mare e ad accettarle implicitamente come il prezzo della propaganda di questo o quel partito impegnato a fingersi paladino degli italiani e disposto a sacrificare migliaia di vite, nel Canale di Sicilia come altrove, per mostrare agli elettori qualcuno può a tutelarli dall’invasione straniera e dalla minaccia “islamica”. Rimedi inverosimili a minacce inverosimili.Tragico, il sacrificio di questa gente e di questi popoli passa inosservato, quelle stragi non esistono, nemmeno i drammi della Somalia e dell’Africa esistono, se non possono essere strumentalizzati per motivi di politica interna dalla parte più retriva e incosciente della politica e dei media. Nessun accenno alle responsabilità del primo mondo, nessuna analisi seria, le ragioni e la stessa esistenza di questi popoli sono rimosse e le loro disgrazie diventano cibo per gli avvoltoi della Lega o dei cattolici schierati sul fronte inesistente dello scontro di civiltà. I soliti guerrieri di carta, disposti a pagare il prezzo di questa politica in vite umane, sempre a patto che si tratti di quelle degli altri, che valgono di meno delle nostre, nemmeno il prezzo di un funerale o di due righe sul giornale".
5 commenti:
A me no !
Il titolo è provocatorio. Nessuno parteggia per chi sequestra ed uccide. Quello che mi colpisce e da un senso di simpatia, sono quelle facce smagrite dalla fame, che vivono in catapecchie, che si vedono passare ogni giorno sotto gli occhi navi ricche di ogni ben di dio, che magari vanno a depredare le ricche materie prime di popoli abbandonati a se stessi. Una pirateria nata dalla fame, insomma! Un giorno, visto che spesso anticipo le tendenze, miliardi di esseri umani affamati invaderanno le nostre case come cavallette se non faremo qualcosa per mettere fine a queste vergognose diseguaglianze, a condividere le enormi proprietà di alcuni e a rispettare chi ha meno di noi.
Non essendo un esperto nè un viaggiatore, sto a quanto affermi circa le catapecchie.
Per quanto riguarda i mezzi e le tecniche di abbordaggio (armi automatiche, motoscafi velocissimi, velocità impressionante dell'arrembaggio: il capitano del rimorchiatore italiano non ha fatto nemmeno in tempo a lanciare l'allarme) direi che sono piuttosto all'avanguardia.
Convengo che il futuro, non nostro e nemmeno dei nostri figli, non è roseo e che una marea di gente affamata si riverserà sui paesi ricchi del mondo, specie la vecchia Europa.
L'uomo si sta mangiando il pianeta e non ha in sè la capacità naturale di autoregolamentazione delle nascite (che peraltro appartiene solo a limitate specie animali) e si comporta rispetto agli altri esseri viventi in modo dissennato, di grande egoismo e concentrazione delle ricchezze.
Insomma, la specie umana è predatrice e mi fa schifo.
Hanno i loro mediatori in Europa. E' gente che muore di fame ma ha qualche fratello che ha studiato. Io non sono stato in Somalia. Ci dovevo andare per L'Espresso quando cadde Siad Barre. Rimandai. Persi un grosso scoop e forse ci guadagnai la vita visto che dovevo passare via terra dalla frontiera etiope. Sono stato, però, in altre realtà simili, come la Liberia, dove la guerra civile genera Paesi senza più regole, senza luce, senza acqua, senza niente, che lotta quotidianamente per la soppravvivenza e dove la morte e la vita sembrano non avere più nessun valore. Se vedi queste cose capisci anche perché somali affamati, guidati dai fratelli più evoluti, assaltano le nostre navi. Tieni conto che questa navi si prendono tuto il pesce, buttano scorie radiottive, trasportano viveri e beni che queste popolazioni non hanno mai visto. Se le vedono passare sotto al naso mentre loro muoiono di fame e malattie, insieme ai loro bambini. Non hanno nemmeno l'acqua, le medicine, niente di niente... .
Hai ragione, sono stat un po' avventato, deso ch ne so di più devo darti ragione: sono davvero dei diseredati.
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