"La politica economico-finanziaria di Pechino si può tradurre in due parole: «zou chuqu», cioè «vai Oltreoceano». O meglio ancora: «go global». Le grandi società cinesi hanno imboccato la strada dell’estero negli Anni Novanta, ma lo avevano fatto molto in sordina; poi - dopo l’ingresso del Paese nel Wto - con molto più slancio. Le prime acquisizioni-choc risalgono al 2004: Tlc Shanghai rileva la telefonia mobile della francese Alcatel e il marchio Usa dei televisori Rca; Lenovo, la divisione personal computer di Ibm (aziende, entrambe, che comunque producevano già in Cina).«Zou chuqu», però, vale anche per gli istituti finanziari, che forti di risorse valutarie per 1500 miliardi di dollari e di una operazione di ristrutturazione e ricapitalizzazione del settore interno voluta dal governo, che lo ha modernizzato e reso più efficiente (anche per fronteggiare la concorrenza degli intermediari stranieri), hanno aperto la stagione di «caccia grossa». La lista dello shopping - tra il 2007 e questi ultimi mesi - è impressionante. Il fondo sovrano China Investment Corporation (braccio operativo della Banca centrale per gli investimenti all’estero, con un portafoglio di 200 miliardi di dollari), guidato dal presidente Lou Jiwei, ha investito in Usa l’equivalente di 2,72 miliardi di euro nel private equity Jc Flowers, 3,5 nella banca d’affari Morgan Stanley e 2,2 nel fondo Blackstone; Citic Securities, emanazione del governativo Citic Group, era entrato con 681 milioni in Bear Stearns, ma di recente, sull’onda della crisi che ha investito il broker, ceduto a Jp Morgan, ha fatto marcia indietro; Minsheng Bank, una delle più grandi banche cinesi non statali, è diventata socia di Ucbh, capogruppo della statunitense United Commercial Bank; China Development Bank ha investito 2,2 miliardi nell’inglese Barclays; Ping An Insurance è entrata con 1,7 miliardi in Fortis e ha di recente acquisito il 50% del capitale di un asset del gruppo assicurativo franco-belga, mettendo sul piatto altri 2,5 miliardi di euro. Ultimamente, infine, le partecipazioni al collocamento in Borsa di Visa da parte di China Life Insurance, con un investimento di 300 milioni, in questo caso in dollari, e di China Investment Corp, con 100 milioni di biglietti verdi. Europa e Usa, dunque, ma non solo. I cinesi si stanno muovendo anche in Africa. Due i colpi noti: China Development Bank è sbarcata in Nigeria, nell’United Bank of Africa, con 3,4 miliardi di dollari e Industrial & Commercial Bank of China (la prima banca al mondo per capitalizzazione) ha acquisito il 20% di Standard Bank, il più grande «sportello» del Sud Africa, paese che è il primo partner commerciale cinese del continente. Un accordo da 5,6 miliardi di dollari.E’ un fronte, questo africano, che ha per Pechino una valenza strategica molto importante. La Cina, in realtà, era già presente da tempo nel continente nero, dove fu riconosciuta dall’Egitto di Nasser nel lontano 1956. Prima di banchieri e finanzieri, vi sono sbarcati battaglioni di tecnici, presenti oggi in massa in diversi stati. E vi sono arrivate le grandi imprese, che hanno fatto crescere repentinamente - decuplicandoli in pochi anni - gli scambi commerciali sino-africani (50 miliardi di dollari nel 2006).«La rilevanza maggiore l’hanno i cosiddetti contratti globali: in cambio dell’approvvigionamento di materie prime la Cina fornisce aiuti allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti» spiega il professore Giorgio Prodi, esperto di Osservatorio Asia e docente dell’Università di Ferrara. I cinesi si consolidano nel continente nero per garantirsi petrolio, oro, ferro, cromo, platino e altri minerali. Tabacco, legname, cotone. Nuovi fonti alimentari. E nuovi mercati per i propri prodotti manufatturieri a basso costo. «I cinesi stanno ripetendo quanto hanno già fatto l’Europa e gli Usa trent’anni fa» rileva Prodi. Il discorso cambia, invece, se si guarda agli investimenti finanziari diretti della Cina in Africa. «Sotto questo profilo, la percentuale è ancora molto bassa, rispetto al novero delle operazioni su estero di Pechino: il 3%, secondo l’ultimo Rapporto Unctad. Le banche cinesi, per ora, investono soprattutto per supportare la strategia economica del proprio Paese, anziché per fini speculativi». Ciò non toglie che siano ormai entrati - leggi Standard Bank - anche nell’establishment finanziario africano".
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